di Federica Cabras

Una solida relazione lega le organizzazioni mafiose al settore sanitario e alle professioni mediche. La sanità, fonte di ingenti risorse economiche e sociali, rappresenta storicamente una sede privilegiata per gli investimenti della criminalità organizzata. Numerose inchieste giudiziarie lo hanno confermato, rivelando sofisticati sistemi di infiltrazione all’interno di svariate strutture sanitarie pubbliche e private, dislocate per lo più nelle regioni di insediamento tradizionale e, negli ultimi anni, anche in alcune aree del Nord Italia. Lo stesso mercato farmaceutico sembra oggi rappresentare un bersaglio importante per la ‘ndrangheta. Lo suggeriscono alcune inchieste che dalla Calabria alla Lombardia hanno individuato forti e diversificati interessi economici nel settore: dalla gestione di farmacie e parafarmacie alla vendita di farmaci illegali, sino all’esportazione di farmaci destinati al mercato estero.

Risale al 2016 l’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Milano che ha acceso per la prima volta i riflettori su presunti investimenti mafiosi nel mercato farmaceutico milanese, sino ad allora considerato immune dalle infiltrazioni dei clan. Al centro dell’inchiesta vi era la farmacia Caiazzo, la quale sarebbe stata acquistata per oltre due milioni di euro con i soldi derivanti dal traffico di droga della famiglia di ‘ndrangheta Marando, attraverso l’intermediazione di due soggetti incensurati. L’inchiesta, conclusasi con l’assoluzione in primo grado per il principale indagato, non ha tuttavia sopito i sospetti nei confronti della farmacia milanese che, a distanza di due anni, hanno ritrovato vigore.

Nel 2018, infatti, una nuova inchiesta della magistratura ha svelato un traffico illecito di farmaci che sarebbe stato gestito dallo stesso titolare della farmacia Caiazzo. Contramol, così fu chiamata l’operazione, prendeva il nome dall’antidolorifico noto come “droga del combattente”, il quale figurava al centro del traffico illegale che vedeva coinvolte le stesse persone inquisite o solo menzionate nella precedente inchiesta della Dda di Milano.

La farmacia Caiazzo non è tuttavia la sola toccata dalle indagini dell’Antimafia milanese. L’inchiesta del 2016 aveva infatti consentito di ricostruire una fitta rete di relazioni che portava anche alla farmacia Primo Maggio di Corbetta (MI), di cui si segnalava la proprietà di due soggetti imparentati con i Romeo di San Luca, divenuti proprietari anche della farmacia Europa di Corsico (MI). Un interesse, quello per il mercato farmaceutico milanese da parte della ‘ndrangheta, ancora tutto da accertare e che desta preoccupazioni crescenti se collegato al tragico momento che stiamo attraversando.

E proprio in piena pandemia, precisamente il 19 novembre 2020, l’inchiesta Farmabusiness della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro irrompe tra le notizie di cronaca. Questa volta siamo in Calabria e a essere coinvolti sono esponenti del clan Grande Aracri di Cutro (Crotone), ritenuti protagonisti di un progetto imprenditoriale ambizioso nel campo della distribuzione farmaceutica. Un settore allettante quello della vendita di farmaci, poco regolamentato e dalla normativa in costante evoluzione che, secondo i magistrati catanzaresi, è in grado di suscitare “appetiti criminali anche per la fragilità finanziaria che lo connota”. Un campo perfetto per riciclare denaro, insomma.

Secondo quanto riportato dagli atti giudiziari, i Grande Aracri avevano costituito una società di distribuzione all’ingrosso di prodotti farmaceutici attraverso una rete di farmacie e parafarmacie dislocate per lo più in Calabria, ma anche in Puglia e in Emilia-Romagna. A lanciare l’idea del progetto imprenditoriale, nel 2013, era stata un’architetta di Roma originaria di un paesino in provincia di Catanzaro. Messa fuorigioco dalle pressioni criminali locali, aveva ben presto rinunciato all’affare. Il quale, grazie all’intermediazione di un faccendiere un tempo legato all’architetta, aveva incontrato l’interesse del boss Nicolino Grande Aracri e dei suoi sodali che avevano scelto di finanziarlo e di assumerne la gestione.

La società avrebbe dovuto occuparsi della distribuzione nella provincia di Catanzaro e dell’acquisto di farmaci oncologici nelle farmacie a prezzi di mercato da rivendere illegalmente all’estero a tariffe gonfiate. «Noi acquistiamo dalle farmacie… aumentiamo il fatturato anche delle farmacie, perché aumentano il fatturato e noi li rivendiamo all’estero, o da altre parti», sosteneva un esponente del clan intercettato durante un summit svoltosi nel 2014 presso l’abitazione del boss Nicolino Grande Aracri. In quella circostanza spuntava anche il nome del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria, allora in carica come assessore del Personale. Secondo gli uomini del clan, l’assessore sarebbe stato la figura di riferimento del gruppo, quello a cui rivolgersi per risolvere problemi burocratici e ottenere in modo agevole le autorizzazioni necessarie all’avvio dell’attività.

Non solo politici, ma anche imprenditori, faccendieri e professionisti figuravano in qualità di sostenitori. Un vero e proprio groviglio di relazioni ruotava attorno all’ennesimo tentativo della ‘ndrangheta di inserirsi prepotentemente nella sanità regionale, già fortemente colpita dalla presenza mafiosa.  Un tentativo che, qualora venisse accertato, dimostrerebbe la  capacità della ‘ndrangheta di penetrare anche un settore quanto mai cruciale come quello farmaceutico in una fase storica in cui la domanda di alcuni dispositivi sanitari è cresciuta vorticosamente. Mascherine, igienizzanti, saturimetri, ma anche farmaci. Sono questi i beni essenziali nell’era Covid dove una nuova economia dell’emergenza si è rapidamente costituita e potrebbe divenire facile preda degli interessi dei clan. D’altronde è la storia delle organizzazioni mafiose a insegnarcelo, che si tratti di un terremoto, di un’alluvione o di una pandemia poco importa.

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