di Evelyn Crippa
«Nonostante fosse in cella, un boss di Cosa Nostra riusciva ad avere contatti e a gestire traffici illeciti della sua famiglia mafiosa». È quanto avrebbero scoperto i carabinieri del Nucleo Investigativo di Monreale nell’ambito dell’operazione eseguita lo scorso 18 febbraio nella cittadina siciliana. I provvedimenti cautelari hanno raggiunto sei persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso quali presunte appartenenti alla famiglia mafiosa di Camporeale.
L’indagine. Quella dell’associazione, secondo quanto risulta dagli atti d’indagine, sarebbe stata un’influenza mafiosa diffusa in diversi settori. Tra questi, quelli della compravendita, ad un prezzo imposto, di bovini e ovini destinati al macello o nella gestione dei fondi agricoli ubicati nelle aree adiacenti alla città di Camporeale. I presunti sodali esercitavano il controllo sulle aree autorizzando o negando l’utilizzo di terreni per il pascolo. Emergono anche rapporti economici con esponenti vicini a Cosa Nostra che riconducono ad aziende della zona. Tra queste, la più importante è la storica cantina Rapitalà – i cui rappresentanti hanno a più riprese ribadito l’estraneità ai fatti e al contesto mafioso – nel cui organigramma figurano come dipendenti “stagionali” 11 persone «vicine per legami di parentela alla famiglia mafiosa di Camporeale». Segno, secondo gli inquirenti, «della permeabilità del tessuto logistico ed economico della società a infiltrazioni da parie del gruppo criminale». I magistrati della Direzione distrettuale antimafia che ha coordinato le indagini, hanno spiegato come vi fosse una consistente infiltrazione dei clan all’interno del tessuto aziendale. «Ogni reparto, dalla vigna alla distribuzione, aveva uomini di fiducia del clan, pronti a segnalare movimenti sospetti o a deviare risorse», le parole utilizzate nella conferenza successiva all’operazione. Le indagini hanno permesso di ricostruire anche alcuni episodi in cui semplici cittadini si sarebbero rivolti al sodalizio per ottenere l’autorizzazione preventiva all’acquisto di fondi agricoli, al recupero di crediti da debitori insolventi e ancora per dirimere controversie sorte tra privati.
Il controllo del territorio. La rete mafiosa, grazie ad un “sistema di incentivi” alle imprese, sarebbe così riuscita a creare trappole cognitive da cui era difficile prendere le distanze. Sul territorio di Camporeale, grazie a quanto appreso dagli elementi di indagine, il “controllo del territorio” acquisito dal sodalizio sarebbe emerso in maniera eclatante dal comportamento di gran parte della cittadinanza. Alcune persone, secondo quanto affermano i magistrati, si sarebbero rivolte ai boss per ottenere l’autorizzazione all’acquisto di fondi agricoli, per recuperare un credito che non riuscivano ad incassare e, ancora, per dirimere controversie tra privati. Gli uomini al vertice decidevano anche chi poteva far pascolare gli animali e chi no. Inoltre la famiglia di Camporeale tesseva continui rapporti con dipendenti comunali e con aziende della zona. Queste relazioni occulte rappresentano una forma di violenza silente, che spesso prospera anche dopo l’arresto di esponenti di spicco.
La cosca di Camporeale. A capo della “famiglia” di Camporeale gli inquirenti collocano Antonino Sciortino, che dal carcere avrebbe mantenuto il controllo del gruppo e gestito gli affari illeciti.
Sciortino, noto negli ambienti come il “saggio”, era tornato in libertà nel 2011 dopo dodici anni trascorsi al 41-bis senza mai rispondere a una sola domanda dei magistrati. Una volta a piede libero, era stato investito di riorganizzare Cosa Nostra e, seppur limitato negli spostamenti, si era subito adoperato per il riassetto del suo clan prendendo in mano le redini del comando.
Tale riassetto, nel cuore della Sicilia Occidentale, era da ritenersi necessario per il sodalizio, che rivestiva una grande importanza, soprattutto in termini economici. Elementi in parte emersi già nel 2013, nell’ambito dell’inchiesta “nuovo mandamento”, così chiamata per il progetto dei clan di costituire un “supermandamento” che avrebbe dovuto accorpare le cosche dei paesi della provincia.