Di Sara Manisera

In questa terra di aranceti le giornate scorrono come sessant’anni fa. Alla mattina, verso l’alba, decine di persone camminano lungo il ciglio delle strade; altre si fermano agli incroci che portano nelle campagne e molti ancora, i più fortunati, li si vede in bicicletta. Sono tutti uomini che – come si dice qui – vanno a farsi la giornata.  Ma a differenza di sessant’anni fa queste persone sono straniere. Da una parte, burkinabè, ivoriani, senegalesi, guineani, maliani, gambiani, marocchini e tunisini. Dall’altra, bulgari, rumeni, ucraini e polacchi. Africani e neocomunitari in competizione tra di loro in una guerra tra poveri. Anche la tipica forma di organizzazione del lavoro agricolo, il caporalato, in parte è cambiata; prima il caporale era un soggetto intermediario, spesso originario del luogo, che si limitava a reclutare la manodopera necessaria al proprietario terriero, trattenendo una parte del compenso; oggi invece il caporale è quasi sempre uno straniero che vive da più tempo in Italia e che perciò conosce meglio certe dinamiche locali.

Ovviamente il caporalato non assume un’unica forma; può andare dal pagamento di uno o due euro per il trasporto nei campi, all’organizzazione di squadre, fino alla sottrazione di cinque euro su una paga di venti euro. Tutto questo dipende anche da chi è il “datore di lavoro”. Se ti capita di lavorare per un piccolo proprietario sei fortunato; lo stesso datore di lavoro passa la mattina con la sua auto o il suo furgoncino e sceglie  due o tre persone per la giornata in campagna; le carica, le porta nel suo campo e a fine giornata le paga venticinque o trenta euro. Se ti capita di lavorare per un grande proprietario terriero, molto probabilmente ci sono uno o più caporali, a seconda della dimensione del terreno; il “kapò” straniero  organizza la squadra o le squadre, spesso anche il trasporto, e a fine giornata paga i suoi connazionali trattenendo uno, due o addirittura cinque euro, sempre su una paga di venticinque euro.  Se lavori invece per un commerciante la situazione è  decisamente peggiore: i commercianti sono soggetti “torbidi” che comprano il prodotto raccolto oppure direttamente sull’albero il “frutto pendente”; i misuratori valutano ad occhio la frutta pendente dall’albero, la moltiplicano per il numero delle piante e il proprietario viene pagato sulla base di questa stima molto approssimativa. In questo caso il sistema di raccolta è organizzato in squadre gestite da caporali crudeli, ai quali il grande commerciante si rivolge per accelerare i tempi della raccolta; la paga media è sempre di venticinque euro ma devi essere veloce, lavorare come un dannato e il più delle volte non puoi nemmeno fermarti per una pausa. Alla fine, dunque, o commerciante o  grande proprietario o piccolo proprietario poco importa; venticinque euro per otto, nove ore al freddo in campagna si chiama sempre sfruttamento.

Ma allo stesso tempo tutti dicono di non poter pagare di più i braccianti perché altrimenti non ci sarebbe margine di guadagno. E allora di chi è la colpa? Della ‘Ndrangheta? Certo, non si può negare, che negli anni ’70 la ‘Ndrangheta abbia allontanato molti  commercianti forestieri che pagavano il prodotto ad un prezzo remunerativo, per rimanere l’ unica acquirente, imporre il proprio prezzo e monopolizzare il commercio degli agrumi, ma da qui, sostenere che sia una causa assoluta è completamente errato. Accanto alla ‘Ndrangheta e alle altre organizzazioni criminali, ci sono, ad un gradino più elevato, altre organizzazioni, sempre criminali ma legalizzate: prima fra tutte la Grande Distribuzione Organizzata, che domina interamente la filiera, controlla i prezzi, impone i consumi a noi consumatori e sforna prodotti a basso prezzo ma ad alto sfruttamento. E poi sullo stesso gradino ci sono le grandi lobbies industriali e agroalimentari protette e difese dalla Politica Agricola Comune che uccide lentamente tutti i piccoli contadini, espropriandoli delle loro terre e mettendoli nella condizione di dover sfruttare per poter sopravvivere al mercato globale. Dunque tutti nello stesso calderone: braccianti, contadini e consumatori. Per non rendersi complice di questo moderno schiavismo, il consumatore  dovrebbe comprare frutta e verdura di stagione; dovrebbe chiedere sempre la provenienza di ciò che mangia; dovrebbe sapere chi la produce e come la produce. Ma soprattutto dovrebbe unirsi nella lotta di contadini e braccianti. Perché se vogliamo un futuro dobbiamo partire difendendo la terra in cui viviamo e il cibo che noi tutti mangiamo.

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