di Nando dalla Chiesa

8 gennaio del 1921. Quel giorno, cento anni fa, nacque a Racalmuto, in provincia di
Agrigento, Leonardo Sciascia, uno dei maggiori scrittori e intellettuali della seconda
metà del Novecento italiano. Che va ricordato in questa sede per il duplice ruolo che
giocò nella lotta alla mafia.
Un ruolo positivo, e largamente, per l’impatto del suo
romanzo più celebre, ‘Il giorno della civetta’, uscito con Einaudi nel 1961, sul rapporto
tra mafia e letteratura. Un ruolo mai avuto da alcun altro romanzo, poiché Il padrino
di Mario Puzo ebbe un impatto soprattutto cinematografico. Si tratta di un testo
ancora di grande attualità. Si pensi alla geometrica allegoria degli appalti, che sembra
nata dalla lettura di atti giudiziari sulla ‘ndrangheta nel Nord Italia. Si pensi alle
splendide pennellate sull’omertà di massa.
O al ritratto di don Mariano Arena, per
nulla “potere occulto” ma sfacciatamente presente sul territorio e da tutti conosciuto e
riconosciuto. O alla celebre classificazione dell’umanità in cinque categorie, dagli
uomini ai celebri quaquaraquà
. O ancora al rapporto a filo doppio tra mafia e politica.
O infine a quella geniale previsione di una “linea della palma” che sale verso Nord di
500 metri all’anno.


E tuttavia Sciascia ebbe un ruolo anche negativo. Accadde un quarto di secolo dopo,
quando gettò la fama e il prestigio conquistati con la denuncia della mafia contro il
nuovo movimento antimafia. Incredibilmente a vantaggio del sistema di potere. Il 10
gennaio del 1987 uscì infatti in prima pagina sul ‘Corriere della sera’ un suo articolo
intitolato ‘I professionisti dell’antimafia’
. Un attacco a chi finalmente stava
costruendo una nuova Sicilia (e anche una nuova Italia) contrastando il fenomeno
mafioso. In quell’articolo venne fatto esplicitamente il nome di un solo “imputato”.
Si chiamava Paolo Borsellino.
Sciascia spiegava che quelli come Borsellino stavano
facendo carriera combattendo la mafia (e non, potremmo chiosare, convivendoci
furbescamente). E che si sarebbero visti in futuro i vantaggi del fare i processi di
mafia. Il “vantaggio” di Paolo Borsellino si vide cinque anni dopo. E fu quello di
saltare per aria con i suoi agenti di scorta il 19 luglio 1992 in uno dei più terribili
attentati della storia della Repubblica.
Prima di morire il giudice fece anche in tempo
ad affermare nel suo ultimo discorso pubblico che “Giovanni (Falcone) ha
incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”.


I sostenitori di Sciascia si sono industriati in ogni modo a sostenere la giustezza di
quella polemica. E a narrare la rappacificazione tra i suoi due protagonisti. Ma
l’accusa disperata di Borsellino, fatta nel momento della più alta consapevolezza, è
un macigno che chiude qualsiasi argomentazione
. Sarebbe più sensato e intelligente
dire che Sciascia commise un grande errore. Ammettere che anche un grande
intellettuale può incappare in un grande errore.
Sostenere l’infallibilità di uno
scrittore che costruì il suo prestigio proprio esaltando la virtù laica del dubbio
significa fargli un torto. Di mezzo non ci sono inezie, ma la storia della Repubblica.

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