di Danilo Rota

2340247-melzo_-La villa con garage ritratta in foto (2 piani + taverna, 140 metri quadri) si trova a Melzo (Milano) in via Aldo Moro, n. 88 e apparteneva a un mafioso.
Già, apparteneva, perchè dal 2 febbraio scorso è al servizio della collettività e del bene comune, essendo divenuta la nuova sede operativa della locale sezione della Croce Bianca onlus (nello stesso comune del milanese è stato confiscato un altro immobile: un appartamento in condominio + box, attualmente in gestione all’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata).

Dopo essere stata confiscata dal Tribunale di Milano – Sezione Autonoma Misure di Prevenzione (decreto del 26 marzo 2002) e – in via definitiva – dalla Corte Suprema di Cassazione (19 novembre 2003), il Comune di Melzo manifestò il proprio interesse a utilizzarla per farne le sedi dell’Ufficio del Piano di Zona e del Servizio Comunale Minori e Famiglie (nota del 4 maggio 2005).
Tuttavia l’Agenzia del Demanio (Direzione Generale, Area Beni e Veicoli Confiscati) decise di mantenere l’immobile al patrimonio dello Stato affinchè fungesse da alloggio di servizio per la Guardia di Finanza (atto di destinazione dell’8 gennaio 2007).
Purtroppo però i finanzieri furono costretti a riconsegnare l’immobile a causa della mancanza dei soldi necessari per ristrutturarlo (nota del 17 agosto 2010).
Allora il Consiglio direttivo dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (istituita dal decreto-legge 4 febbraio 2010, n. 4, convertito dalla legge 31 marzo 2010, n. 50) stabilì all’unanimità di procedere all’assegnazione dell’immobile (delibera del 7 ottobre 2010), revocando il conferimento alla Guardia di Finanza e trasferendo lo stabile al patrimonio del Comune di Melzo, affinchè diventasse ciò che lo stesso aveva già espresso nel 2005 (decreto di destinazione del 14 ottobre 2010).
Negli ultimi giorni di luglio 2013 il Comune ha concesso la villa in comodato d’uso gratuito per (almeno) 30 anni alla locale sezione della Croce Bianca onlus, formata da 166 volontari. Dopo alcuni mesi impiegati per effettuare i lavori di sistemazione (ai primi di settembre sono iniziati gli scavi per creare il parcheggio delle 5 autoambulanze in dotazione), finalmente il 2 febbraio scorso si è svolta la cerimonia di inaugurazione dei locali, dotati di una postazione per ricevere le telefonate, una sala per corsi di formazione e aree per il primo soccorso.
Da quando lo Stato è venuto definitivamente in possesso dell’edificio (novembre 2003) a quando la società ne ha concretamente potuto disporre (febbraio 2014) sono dunque trascorsi poco più di 10 anni.
Decisamente tanti, troppi.
Alla fine, però, dal tremendo puzzo dell’illegalità è riuscito a sbocciare il dolce profumo della legalità.

Legalità che, in questo caso, porta il nome di don Pino Puglisi (al quale è stata intitolata la nuova sede della Croce Bianca onlus di Melzo), parroco della chiesa di S. Gaetano del quartiere Brancaccio di Palermo, ucciso da Cosa Nostra il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno.
I responsabili furono i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (boss a capo del quartiere, mandanti), Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza (esecutori materiali), Antonino Mangano (organizzatore), Luigi Giacalone e Cosimo Lo Nigro (addetti alla copertura).
Nelle motivazioni della sentenza n. 7 del 13 febbraio 2001, i giudici della Corte di Assise di Appello di Palermo – Sezione I hanno così descritto la “figura eccelsa” di don Puglisi:
“…un prete di trincea, un sacerdote che infaticabilmente lavorava sul territorio; un religioso non contemplativo ma calato pienamente nel sociale, immerso nella realtà del tutto particolare e difficile di un quartiere degradato, dove, <<fino a qualche tempo prima c’era quasi il coprifuoco la sera>>.
Don Puglisi, sostanzialmente, era il centro motore di molteplici iniziative sociali, pastorali ed anche economiche in favore della sua comunità ecclesiale che potessero servire al riscatto sociale di un tipico quartiere della periferia degradata della città, dove <<la gente viveva ed operava sotto una cappa di dominio e sopraffazione, subiva impotente un clima di intimidazione, correva rischi concreti se si fosse adoperata solo per migliorare le condizioni minime di sopravvivenza civile>>.
Ed a Brancaccio si poteva morire anche solo per avere avuto il coraggio di reclamare una vita normale, la legalità più elementare, la voglia di professare l’impegno sociale cristiano, da molti spesso sbandierato ma solo da pochi praticato.
Don Pino non faceva politica, non era iscritto nel lungo elenco dei retori dell’antimafia. Era solo un uomo ed un cristiano che cercava la normalità e pretendeva la normalità. Per lui la legalità era normalità del convivere civile e non un esercizio di retorica. La legalità, per lui, era potere operare da uomo libero, con semplicità, con naturalezza, senza servire il politico o l’amministratore di turno e senza abdicare alla dignità di cittadino, di sacerdote e di uomo.
Don Pino Puglisi voleva soltanto vivere da uomo libero, da cittadino di una società civile, da uomo che non si fa soggiogare dal (pre) potente di turno: ed in tal senso scuoteva il clima di passiva rassegnazionee di atavica omertà diffusa nel suo quartiere nel tentativo di affrancare la gente dal potere mafioso.
(…)
Tutte le opere e le iniziative benefiche che avevano fatto capo al sacerdote (…) mostrano la figura di un religioso non contemplativo ma calato pienamente nel sociale, un prete (…) che non si arrende neppure di fronte alle minacce ed alle intimidazioni.
Il parroco della chiesa di San Gaetano di Brancaccio aveva scelto di schierarsi, apertamente e concretamente, dalla parte dei deboli e degli emarginati; aveva deciso di appoggiare fermamente e senza riserve i progetti di riscatto provenienti dai cittadini onesti, che intendevano cambiare il volto del quartiere, desiderosi di renderlo più accettabile, vivibile ed accogliente, e per questo erano mal visti, boicottati e addirittura bersaglio di intimidazioni e di atti violenti.
Tutto ciò non lo aveva distolto dalle sue occupazioni silenziose e quotidiane in favore della comunità: soltanto di fronte all’azione implacabile di una maledetta truce mano omicida il suo spirito indomito di religioso, impegnato sul piano etico e civile, aveva dovuto soccombere, solo ed inerme.
Per il suo attivismo, infatti, il buon prete si era esposto dapprima alle rappresaglie e poi alla tremenda offensiva mortale della mafia.
La straordinaria vicenda di Padre Pino Puglisi – 3 P come chiamavano il sacerdote i suoi collaboratori più stretti – è, in realtà, nella sua disarmante semplicità, la storia di quanti sono morti per affermare la normalità e la legalità in una terra soggiogata dalla prepotenza mafiosa.
Ci troviamo di fronte alla ennesima vittima dello strapotere mafioso, una vittima, in certo senso, diversa dalle altre, ma pur sempre una vittima della mafia: accomunata a tutte le altre per essere morta da sola e indifesa, diversa sicuramente per l’amore che aveva inculcato e la fiducia che aveva creato in quanti lo avevano conosciuto e seguito.
Don Pino Puglisi era un vero uomo, libero ed autentico, beato e forse Santo, suo malgrado”.

A Melzo, comune in provincia di Milano, don Pino vive.

Ecco alcuni dati sui beni confiscati alle organizzazioni mafiose (aggiornati al 7 gennaio 2013):

Italia: 12.946 beni confiscati, di cui 11.238 immobili e 1.708 aziende;

Lombardia: 1.186 beni confiscati (9,16 % del totale nazionale), di cui 963 immobili (8,57 %) e 223 aziende (13,06 %);

Milano e provincia: 708 beni confiscati (59,7 % del totale regionale e 5,47 % del totale nazionale), di cui 561 immobili (58,26 % del totale regionale e 4,99 % del totale nazionale) e 147 aziende (65,92 % del totale regionale e 8,61 % del totale nazionale).

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