Milano, 20 agosto 2016

Questa settimana i ragazzi sono andati avanti con le attività senza di noi; o almeno così immaginiamo. Ci è stato sconsigliato di mantenere qualsiasi tipo di contatto con loro. Sappiamo solo che agosto è un mese pesante perché molti educatori vanno in ferie e tante attività vengono sospese.

A una settimana di distanza risuonano ancora in testa alcune frasi, alcuni racconti e alcune immagini. Durante i dieci giorni insieme ci sono stati tanti momenti di intime confidenze dalle quali si intuisce che “dentro” e “fuori” non sono sempre mondi così distanti, al contrario spesso hanno in comune gli aspetti peggiori. Dai racconti dei ragazzi si capisce che i meccanismi della strada vengono portati dentro senza troppa fatica attraverso episodi di violenza o piccola illegalità oppure attraverso ingiustizie subite o perpetrate in modo reciproco dagli operatori e dai ragazzi stessi.

Probabilmente queste confidenze sono da prendere “con le pinze”, tuttavia chiariscono una sensazione: il senso avvertito di claustrofobia e l’impressione di compiere una serie di azioni meccaniche e senza significato mi hanno accompagnato in quasi tutte le giornate di questa esperienza e al rientro si fanno sentire anche con più forza. La porta meccanica si apre, entri e si richiude alle tue spalle, mostri il cartellino a un funzionario che a sua volta appunta un numero e attendi in corridoio finché non si apre una seconda porta che dà su un cortile dove ti aspetta un’altra porta e ripeti così l’operazione due o tre volte prima di incontrare i ragazzi nelle aule. Quando passiamo noi dai corridoi, loro devono restare al di là delle porte e ci guardano e salutano attraverso i vetri. Infine ci incontriamo tutti nelle stesse aule, come ad annullare quelle lunghe procedure di divisione, e per qualche ora ci dimentichiamo di tutte quelle porte, dei permessi, degli orari, delle sbarre e delle mura.

C’è il laboratorio di musica grazie al quale alcuni ragazzi hanno formato una band che ha suonato per noi l’ultimo giorno nel cortile/giardino urbano appena costruito insieme. Le note di Nirvana, Eurythmics e Jet riecheggiano tra le quattro mura del cortile, tra le smorfie divertite della maggioranza che invece è appassionata di Hip-Hop e Raggaeton. C’è la partita di Basket organizzata dall’ambasciata dominicana che una volta all’anno compone una squadra apposta per giocare nel campo del carcere con i detenuti dominicani. Ci sono l’orto, la biblioteca e il laboratorio di arte. Proprio il professore di arte farà partire un nuovo progetto di urbanistica a settembre: vuole ripensare gli spazi di una prigione insieme ai ragazzi. Per un momento il senso di claustrofobia sparisce.

Due facce di una stessa realtà che in quanto opposte ti confondono. Da un lato vorresti avere fiducia in questo sistema di recupero della persona, dall’altro avere fiducia sembra un’utopia. Da un lato le loro storie, dall’altro le tante attività e la loro sincera voglia di uscire e cambiare vita. Una linea sottile divide punizione e reinserimento sociale da una scarsa tutela dei diritti umani. Nel mezzo, come funamboli, abbiamo ondeggiato noi insieme con gli educatori che ogni giorno cercano di dare nuova motivazione ed energia a quei ragazzi che spesso vedono il carcere come “parte del gioco” in una vita tutta sbagliata. Ma se questo serve anche solo per una persona, perché possa affrontare un cambiamento positivo e non tornare a commettere crimini, allora avere fiducia sembra un po’ meno utopistico.

Si è chiuso così il campo a Granollers, con quella mezz’ora di camminata per tornare alla nostra base che l’ultimo giorno è stata silenziosa e carica di significato. I dubbi rimangono, a una settimana di distanza, ma rimangono anche fiducia e speranza, e le parole che Maria, coordinatrice del campo, ha rivolto ai ragazzi l’ultimo giorno e con le quali vorrei concludere questo racconto:

Spero che il rispetto che ci avete trasmesso in questi giorni vi verrà restituito dal mondo.

volontari

Il gruppo dei volontari

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