“La mafia è dovunque, in tutta la società italiana, a Palermo e Catania, come a Milano, Napoli o Roma, annidata in tutte le strutture come un inguaribile cancro”.

Correva l’anno 1983 e con queste parole Giuseppe Fava apriva il primo numero de “I Siciliani”.

Stampo Antimafioso nasce a distanza di 28 anni dai Siciliani sapendo che Giuseppe Fava e “i suoi carusi” avevano ragione. Come aveva ragione il generale dalla Chiesa quando biasimava chiunque si illudesse di sconfiggere la mafia contrastandola nel solo “pascolo palermitano”.

Nasciamo nel 2011, esattamente nel periodo storico in cui il Nord Italia si trova a fare i conti con questa bruciante verità. La Lombardia ha accolto come un pugno allo stomaco la notizia della presenza mafiosa nelle sue città. Le istituzioni, in particolare, l’hanno fatto con estremo ritardo, soltanto quando messe di fronte ad una realtà ormai innegabile. L’operazione Crimine-Infinito del luglio 2010 ha in questo senso costituito un punto di non ritorno: i più di 300 arresti effettuati tra Calabria e Lombardia hanno puntato i riflettori su un problema fino a quel momento ignorato, minimizzato, mistificato, addirittura esplicitamente negato.

Come spiegarsi questo ritardo? Cosa ha favorito il processo di colonizzazione della ‘ndrangheta al Nord? Un cono d’ombra lungo trent’anni, ecco cosa. Alla fine degli anni ’80 il sindaco Pillitteri dichiara: “Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste. Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola”. E ancora all’inizio del 2010 il prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi tuona: “A Milano e in Lombardia la mafia non esiste. Sono presenti singole famiglie”. Ma, insieme alle istituzioni amministrative e politiche, anche l’imprenditoria, l‘associazionismo locale, il mondo dell’informazione e quello sindacale, gli ordini professionali e i professionisti di ogni campo – cioè le forze sane – hanno spesso sottovalutato l’importanza della posta in gioco: difendere il territorio dal potere mafioso, salvaguardare la democrazia sostanziale.

La posta in gioco è altissima. Quindi dobbiamo giocare tutti se non vogliamo perdere. Ma per farlo dobbiamo darci delle regole. Dobbiamo lottare con responsabilità, con competenza, con lealtà. Senza cercare plausi facili né bieche demagogie. Rinunciando sempre ai sensazionalismi “acchiappa-click” (già che siamo nella società della comunicazione e di quella digitale in particolare) perché ciò vuol dire automaticamente sacrificare l’argomentazione basata sui fatti in nome della propria vanagloria. In pratica seguendo il monito di chi ha ancora tanto da insegnare, al netto delle fisiologiche trasformazioni sociali. Quel Giuseppe Fava tanto inviso al potere catanese che infatti scriveva: “Onestamente la verità. Sempre la verità”. Dobbiamo chiederci cosa ci insegna il passato, quali categorie ci offre per leggere il presente. Dobbiamo studiare e raccontare il fenomeno mafioso e osservare altrettanto seriamente il movimento che si prefigge di contrastarlo. Dobbiamo capire il conflitto in essere, viverlo, starci dentro. Dobbiamo decidere a quale modello di giornalismo aderire, senza mai cadere nell’errore di costruire icone pericolose.

Ecco allora I Siciliani, le inchieste di Giancarlo Siani dalle colonne de Il Mattino, l’irriverenza di Peppino Impastato dalle frequenze di Radio Aut, le rivelazioni del quotidiano palermitano L’Ora, l’instancabile attività dei giovani che sostengono Telejato, il segno indelebile tracciato dall’esperienza di Società civile nella Milano degli anni Ottanta. Noi scegliamo di collocarci nel solco di queste esperienze per imparare da loro e a nostra volta insegnarle ad altri, come facciamo con il biennale Laboratorio di Giornalismo Antimafioso. Ecco allora però anche il dovere di riflettere sul potere, sul rapporto tra questo e l’informazione. Quanto la può inquinare? Quante volte ha interferito con la vite delle persone fino al punto di annientarle? Noi non dimentichiamo Alessandro Bozzo, cronista precario calabrese, vittima di violenza privata perpetrata dal suo editore, suicida nel 2013; non fatelo nemmeno voi: questa è la sua storia. La memoria è un campo di battaglia: in quanto tale, va presidiata, va difesa, va curata.

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Questa è la nostra missione: smascherare i principali luoghi comuni sul fenomeno mafioso, squarciare il velo che ha reso la mafia al Nord invisibile per molto tempo, contribuire alla crescita e al rafforzamento del movimento antimafia. Poiché la forza della mafia sta fuori dalla mafia più che dentro di essa. Sta nella sua invisibilità materiale, accreditata da chi dichiara che “la mafia non esiste” o che “non esiste qui”, e concettuale, laddove sovente si è portati a confondere la mafia con il clientelismo o con la delinquenza comune. In questo senso, quindi, fuori: in una società acquiescente, in una politica corrotta e compromessa, in una stampa che pecca di omissioni e bugie.

Noi siamo una giovane redazione di giovani universitari e ricercatori precari. Abbiamo alle spalle un comune percorso formativo che ci ha visti partire come studenti del corso di Sociologia della criminalità organizzata del prof. Nando dalla Chiesa e proseguire, nell’affinamento delle nostre conoscenze e competenze di studiosi, con un corso specifico di giornalismo antimafioso (lo stesso che ora conduciamo come tutor!).
Il progetto che abbiamo pensato tra i banchi dell’università, pertanto, è questo. Mantenendo il focus sul nord Italia, in particolare sulla Lombardia, cerchiamo di offrire ai nostri lettori cronache giudiziarie, ricostruzioni e approfondimenti, reportage; ma non siamo “milano-centrici”, anzi: ci proponiamo di dare il massimo risalto possibile alle vicende nazionali ascoltando le voci degli altri territori. Per questo facciamo parte della Rete dei Siciliani Giovani. Intendiamo poi mettere a disposizione di tutti fonti istituzionali (atti giudiziari, leggi, relazioni parlamentari) e materiali di rilevanza scientifica come le migliori tesi di laurea in Sociologia della criminalità organizzata. E poiché mafia e antimafia si raccontano e si spiegano vicendevolmente, particolare visibilità intendiamo dare anche a tutte quelle occasioni (dibattiti, conferenze, eventi culturali, presentazioni di libri) che mostrano l’esistenza di una progressiva presa di coscienza del fenomeno mafioso e la volontà, soprattutto dei giovani e di buona parte della società lombarda (insegnanti, amministratori, sindaci) di operare concretamente sul loro territorio al fine di creare i necessari anticorpi contro la mafia.

Riccardo Orioles è uno di quei “carusi” di Fava; uno di quei giornalisti al quale il giornalismo italiano (e non diciamo quello “antimafioso”) deve tantissimo: gli deve verità, coerenza, dignità. Merce preziosissima. Quando abbiamo annunciato a Riccardo la nostra nascita, lui ci ha detto questo:

“Cari ragazzi, andate avanti, non fermatevi, la vita è bella e ne abbiamo una sola: non fatevi tentare dalla mediocrità, vivetela con pienezza, almeno alla fine vi sarete divertiti e sarete stati utili agli altri esseri umani”.


 

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