Anche al bunker di piazza Filangieri tira aria di ferie: lo si legge nei volti espressivi degli uomini della polizia penitenziaria che con più affanno del solito trasportano i detenuti dal penitenziario all’aula di dibattimento. Le udienze riprenderanno martedì 18 settembre.

Dopo un luglio rovente, pausa estiva per tutte le figure coinvolte nel rito ordinario del processo Infinito: il Pubblico Ministero Alessandra Dolci, i magistrati della corte presieduta dal giudice Maria Grazia Balzarotti e gli imputati dietro le sbarre. Ma agosto è vacanza anche per gli uomini dalla divisa blu chiaro e la battuta facile. Socievoli e generosi di caffè, piacevole compagnia per le interminabili udienze, le guardie carcerarie sono sempre disponibili a scambiare quattro chiacchiere, condividere impressioni e sensazioni sullo svolgimento del processo. Grazie alla loro ‘posizione privilegiata’ seguono gli avvenimenti da una prospettiva ben diversa da quella di un giornalista presente in aula, di un parente o di un avvocato intento a difendere il suo assistito: accompagnano, scarrozzano, proteggono gli imputati nelle più svariate situazioni, dal pranzo alla dialisi in ospedale. Personaggi del  ‘dietro le quinte’ giudiziario, le guardie carcerarie sono figure ibride: né rana né girino, simili ad anfibi sguazzano nel mondo giudiziario. Spesso camminandoci in punta di piedi, attentamente; altre volte con distacco e disinteresse: “Potrei fare il postino o il fruttivendolo, per me questo è solo lavoro, è timbrare il cartellino”.

Le udienze del mese di luglio sono state lunghe e articolate. Oltre che nella sede usuale di piazza Filangieri, situata nel centro di Milano fra la pittoresca Brera e piazza Castello, il dibattimento estivo si è svolto in via Ucelli di Nemi, covo degli spacciatori meridionali degli anni ’90. Qui, nel tormentato quartiere di Ponte Lambro, periferia Est del milanese, sorge l’aula giudiziaria detestata da tutti, in primis proprio dalla polizia penitenziaria: si respira un’aria cupa, un’eterna tensione che rende difficilmente gestibili gli imputati a partire dal loro umore. Ed è proprio in questo bunker, costruito al fianco di una scuola materna e accerchiato dagli alti e squadrati palazzoni delle case popolari, che si è svolto l’esame dei testimoni di Candeloro Pio e Carlo Antonio Chiriaco. Il primo si presume essere il capo del locale di Desio: nato a Melito Porto Salvo in provincia di Reggio Calabria, fino al blitz del luglio 2010 vive a Seregno, nel cuore della Brianza. L’accusa mossa contro Candeloro è quella di detenzione d’armi da fuoco, attività estorsiva e intimidatoria al fine di favorire il consolidarsi in Lombardia dell’attività criminale di stampo mafioso entro cui occupava posto di rilievo. Candeloro, per mascherare la sua ‘calabresità’ presente nell’aspetto e nell’accento, assume un soprannome: si fa chiamare Tonino, un nome dalla ben più pacata sonorità meridionale rispetto all’altisonante Candeloro. Il secondo, invece, è l’ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia. E’ vero: nel 2007 Chiriaco è stato condannato per esercizio abusivo della professione sanitaria  – nel suo studio svolgeva prestazioni dentistiche senza la prescritta abilitazione professionale, ndr – ma chi poteva aspettarsi che a capo del polo considerato tra i più importanti d’Europa con 530mila assistiti e circa 160mila ricoveri l’anno ci fosse un uomo della ‘ndrangheta? Nato a Reggio Calabria e nominato direttore sanitario su segnalazione del presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, Chiriaco è definito dalla DDA di Milano elemento di raccordo tra alti esponenti della ‘ndrangheta ed esponenti della politica lombarda, tanto che per il GIP Andrea Ghinetti il cap d’imputazione è quello di concorso esterno in associazione mafiosa. Attorno a Chiriaco gravitano tre personalità dell’ormai quasi del tutto delineato profilo criminale: l’imprenditore edile Francesco Bertucca, il biologo Rocco Coluccio e il tributarista Pino Neri.

Figure così diverse, quelle di Candeloro Pio e Carlo Antonio Chiriaco, l’autotrasportatore e il dirigente sanitario, che a guardarle da lontano potrebbero sembrare slegate: Candeloro l’uomo dei cantieri, cresciuto fra polvere e cemento, pantaloni sporchi e una famiglia da mandare avanti; Chiriaco l’uomo delle istituzioni, giacca costosa e cravatta ricercata, laurea appesa nello studio e sicurezza economica in tasca. Eppure c’è ben più di un comportamento che li rende simili, vicini, tanto da essere protagonisti del rito ordinario nello stesso processo: come emerge dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, ciò che accomuna Candeloro e Chiriaco è la partecipazione in prima linea all’espansione della ‘ndrangheta al Nord. Dalle testimonianze di chi nei cantieri ci lavora, respirando lo sporco delle fondamenta su cui poggiano le nostre case, risulta ormai chiaro che di infiltrazione criminale nel movimento terra non si possa più parlare: è da almeno due decenni che la ‘ndrangheta ha il predominio del business dei trasporti e del mattone. Non infiltrazione, bensì appurata presenza, e per giunta in costante crescita. Ciò che fa maggiormente rabbrividire, invece, è che la Calabria malata non si sia accontentata della ‘Lombardia da costruire’, palazzoni, quartieri popolari, multisala o superstrade da asfaltare. Perchè sporcarsi le mani e spaccarsi la schiena nei cantieri quando è così semplice, con le giuste segnalazioni, entrare nella zona grigia dello Stato? E diventare potenti, nel settore del servizio più richiesto dall’intera comunità, poveri e ricchi, disoccupati operai o imprenditori: la sanità. Del resto l’obiettivo è sempre lo stesso: i soldi. La ‘ndrangheta consiglia, Regione Lombardia approva. E viceversa.

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