Classe ’72, ex calciatore, una carriera tra le file esponenziali della ‘ndrangheta, nel 2010 l’arresto per associazione a delinquere di stampo mafioso e, poco dopo, la decisione di collaborare con la giustizia: è il pentito Antonino Belnome, il ‘padrino’ di Giussano, a tenere alta la tensione nel bunker del San Vittore in occasione del processo Infinito.

E’ un fiume in piena, Antonino Belnome. Già condannato a 11 anni e 6 mesi di reclusione, a partire da metà marzo per due intense settimane è stato sottoposto all’interrogatorio del pubblico ministero Alessandra Dolci. Domande e riposte in videoconferenza, dato che il soggetto in questione, avendo deciso di collaborare, si trova in località segreta. Ed è dall’aula di piazza Filangieri che il ‘padrino’ di Giussano fa luce sulle vicende che, il 13 luglio 2010, hanno portato in Lombardia all’arresto di 159 affiliati. Nipote dei Tedesco e amico dei Gallace, nell’aula bunker Belnome ricostruisce le sequenze degli attentati a danno di imprenditori brianzoli; ripercorre i passaggi dei traffici di droga e delle estorsioni; racconta le riunioni al Carrefour di Paderno Dugnano, nel sottoscala di una scuola milanese in zona Maciachini, le mangiate e i festeggiamenti nelle ville e casolari di affiliati. Narra in prima persona l’omicidio del boss Carmelo Novella, compiuto il 14 luglio 2008 a San Vittore Olona, in provincia di Milano: bastarono pochi colpi di revolver ad eliminare ‘compare Nuzzo’, l’ambizioso secessionista della ‘ndrangheta che mirava a rendere autonoma la criminalità lombarda di stampo mafioso dalla madrepatria calabrese. E fa luce, Belnome, anche sul rapporto di fiducia esistente fra gli uomini dei clan e le forze dell’ordine: che in Lombardia ci sarebbero stati degli arresti a tappeto, alcuni adepti d’alto rango delle sedici locali coinvolte nell’inchiesta Infinito lo sapevano ben prima di quel 13 luglio 2010, data culmine dell’operazione condotta congiuntamente dalle Direzioni Distrettuali Antimafia di Milano e Reggio Calabria.

Io intendo collaborare con l’Autorità Giudiziaria, voglio cambiare vita, e lo faccio per me e per la mia famiglia, per i miei figli, voglio stare dalla parte dello Stato. Ho fatto parte dell’organizzazione denominata ‘ndrangheta con un ruolo anche apicale, ‘padrino’, e quindi la Signoria Vostra potrà valutare la mia voglia di verità rispetto alle cose che mi accingerò a dire”: è questa la dichiarazione rilasciata alla Procura di Milano da Antonino Belnome nell’ottobre 2010, tre mesi dopo il suo arresto. Semi-professionista del Teramo, negli anni ’90 Belnome era un calciatore di successo: aveva l’affetto dei fan che lo seguivano durante le partite, esercitava fascino sulle donne e dalla disciplina sportiva ricavava un buono stipendio rispetto ai coetanei della sua terra nativa, la Calabria. Tanto da investire il capitale ottenuto sul campo, tra fuori gioco e tiri di rigore, nell’avviamento di un’impresa edile: come a dire, dal calcio alla calce. Poi quel dannato incidente stradale che a 28 anni gli stronca la carriera e il sogno di una vita nel mondo del pallone diventa un’occasione persa, da dimenticare. La sua determinazione non resta però inosservata ai ‘facoltosi’ di Guardavalle, paese d’origine in cui sin da bambino passa vacanze e festività. Ma non è nella cittadina in provincia di Catanzaro, sul versante jonico delle Serre, che Antonimo Belnome comincia la sua scalata nella rigida gerarchia della ‘ndrangheta. Fatta di regole, norme e imposizioni da rispettare. E se sgarri alla meno peggio ti ritrovi con una carrellata di proiettili sulla porta. E’ a Giussano, nel cuore della Brianza, che nell’arco di una decina d’anni da ‘contrasto onorato’, termine ‘ndranghetistico che indica l’affiliazione in prova per un determinato lasso temporale, Belnome riceve le doti di ‘giovane d’onore’, ‘picciotto’, ‘camorrista’, ‘sgarrista’, ‘santista’, ‘vangelo’ fino ad arrivare sempre più in alto, alla nomina di ‘padrino’. Ovvero: capo della locale di Giussano. Tante le amicizie e gli incontri con latitanti; tanti i favori fra affiliati; tante le azioni criminali compiute sotto suo ordine. “Nella ‘ndrangheta la mia è stata una scalata vertiginosa, sono stato spalleggiato e in pochi anni ho rimpiazzato senza programma persone molto più grandi di me – spiega Belnome – vivendo in quel mondo l’ambizione di scalare e arricchirsi è una droga, non si ragiona più se non nell’ambito criminale. E il mio obiettivo era raggiungere le cime più alte della ‘ndrangheta. E una volta che si raggiunge l’apice è finita: non puoi più fidarti di nessuno, devi guardarti alle spalle, spostarti da un luogo all’altro, fuggire dai nemici. E alla fine ti ritrovi solo, senza famiglia e senza amici. La ‘ndrangheta non è come molti credono solo donne, belle auto e moto. La ‘ndrangheta è una droga che ti corrode da dentro. E’ questo quello che i tanti giovani che vorrebbero affiliarsi devono capire”. Si dichiara pentito, Antonino Belnome. Pentito e ormai interiormente slegato da quel mondo di soldi facili e loschi malaffari che, a Giussano, era lui stesso a comandare. Tanto che gli otto mesi di isolamento in carcere hanno piegato il temibile giovane boss dalle auto costose e serate da marajà a prendere in mano carta e penna e scrivere un memoriale. Ed è proprio da quest’ultimo, dall’insieme dei suoi pensieri e riflessioni sull’universo ‘ndranghetistico e sulle metodologie d’affiliazione, che parte il controesame degli avvocati della difesa.

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