1485977_10201052304143897_318467457_oIl 4 gennaio scorso, nell’aula consigliare del comune di Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, Ester Castano è stata insignita del «premio giornalistico Pippo Fava giovani», dedicato ai giornalisti che si impegnano nella lotta alla mafia. In questa intervista Ester si racconta ai microfoni di Stampo, sul premio, sul suo lavoro e sulla direzione che sta prendendo il movimento antimafia in Italia.

Come ti sei sentita e cosa hai pensato quando ti hanno comunicato che avresti vinto il premio Giuseppe Fava?

Quando Maria Teresa della Fondazione Fava mi comunicato del riconoscimento l’emozione è stata talmente forte che mi è mancato il fiato. Per me, siracusana d’origine, le sensazioni vissute in questi giorni catanesi sono state amplificate dalle mie radici. Mi sono avvicinata alla figura Pippo Fava qualche anno fa. Inizialmente sapevo poco di lui, conoscevo solo gli scritti essenziali, le inchieste più celebri come i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa. Un po’ perché anche Fava era siracusano, un po’ perché a Milano e Bologna amici più grandi attivi nell’antimafia me ne parlavano spesso. Quando desidero conoscere qualcosa devo guardarla da vicino, e quindi decisi di andare a Palazzolo Acreide, il paese in cui è nato: non conoscevo nessuno, era estate e ricordo che lungo il corso della piazza principale sfilava una processione. Mi misi in un angolo e osservai tutto silenziosamente, i volti delle persone e le luci. Poi muovendomi in mezzo alla folla cominciai a fare qualche domanda: lei lo conosceva? Leggeva i Siciliani? La mafia che uccise Fava è la stessa che oggi è attiva in città? Era già un paio d’anni che a Milano, città in cui vivo, collaboravo con una redazione e già allora dissi al direttore: il mio sogno è tornare in Sicilia e crescere giornalisticamente nell’isola. Diciamo che la ‘ndrangheta al Nord mi ha trattenuta al di sopra del Po, e in un certo modo fare inchiesta in Lombardia mi ha aiutata ad apprezzare il territorio in cui sono nata e cresciuta, e quindi a volerlo difendere. Non avrei immaginato, a quattro o cinque anni di distanza, di tornare in quella stessa piazza di Palazzolo Acreide onorata da un riconoscimento che porta il suo nome. Mi sono emozionata molto.

A chi vorresti dedicarlo, o chi vorresti ringraziare?

Mi è stato detto da colleghi giornalisti che vedo la mafia al nord perché le mie origini sono meridionali, “l’eroina dell’antimafia che rovina la nostra terra con le sue visioni distorte”. Vorrei che da oggi in poi quando si parlerà del «premio Pippo Fava Giovani» che mi è stato assegnato si parli anche di tutti i ragazzi dei Siciliani Giovani, rete di testate e associazioni antimafia nata dalle ceneri dei Siciliani grazie a Riccardo Orioles, e al loro impegno quotidiano da nord a sud dello Stivale. Il premio va a loro, perché se nei momenti difficili che ho vissuto durante l’inchiesta su Sedriano, primo comune lombardo sciolto per mafia, non ci fossero stati loro con messaggi d’affetto, abbracci e comunicati di solidarietà, da Bologna a Modica, probabilmente oggi non avrei questa forza e serenità. Ad ogni momento di tensione la rete si è mobilitata creandomi attorno uno scudo di protezione e questo, fatto da ragazzi e ragazze giovanissimi contro i poteri forti della malapolitica e della criminalità organizzata di stampo mafioso, è eccezionale nel vero senso della parola.

Qual è il ruolo del giornalismo d’inchiesta nella lotta alla mafia?

E’ fondamentale. A mio parere per avere credibilità la distinzione fra giornalista e attivista deve rimanere netta anche nell’antimafia. Ma è anche vero che in un momento storico confuso e delicato come il nostro il giornalista d’inchiesta dovrebbe essere capace di far scattare una miccia fra i lettori, una scintilla: gli articoli sono uno strumento tramite cui i cittadini possono avere uno sguardo approfondito sulla realtà. E’ il giornalista che ha la possibilità di studiarsi le carte, di porre domande, di osservare da vicino. La responsabilità è immensa. Poi sta al cittadino decidere se, grazie agli elementi forniti dal cronista attraverso le sue denunce, avviare il cambiamento e ribaltare il sistema.

Cosa è rimasto di Pippo Fava nel giornalismo italiano? C’è qualcuno che ha raccolto il suo testimone o la sua esperienza è rimasta isolata?

Uno dei grandi meriti di Fava è quello di aver creato uno spirito giornalistico: un po’ come un batterio benefico, intacca la carne malata e crea oasi di guarigione. La mafia voleva tappargli la bocca: per questo è stato ucciso. Ma così facendo i mandanti hanno compiuto l’errore più grande: ammazzando il direttore dei Siciliani non solo non hanno posto fine alla forza dirompente dei suoi scritti, ma hanno anche reso possibile il moltiplicarsi di esperienze simili alle sue, in Sicilia e nel resto d’Italia. Non so se Cosa Nostra questo errore l’abbia compiuto per ingenuità o distrazione, sta di fatto che ha perso. Il giornalismo di Fava è stato assunto a modello da molti giovani: cercare le notizie nei luoghi in cui si svolgono i fatti, osservare da vicino, cogliere i dettagli e le sfumature, curare nel testo la propria espressione linguistica. E dal giorno successivo a quel tragico 5 gennaio 1984 la forza dirompente delle parole di Fava si è amplificata, moltiplicata, permettendo la creazione della rete dei Siciliani Giovani che oggi coinvolge giovanissimi cronisti e associazioni antimafia che in Fava riconoscono un maestro.

Come si sta evolvendo e cosa sta succedendo al movimento antimafia in Italia?

Il movimento antimafia è un continuo fiorire di nuovi gruppi, presidi, associazioni. Ragazzi giovani, perlopiù ventenni, che vedono l’antimafia non come una spilletta colorata da sfoggiare sulla giacca ma come un fondamento del vivere quotidiano. Bisognerebbe spiegare ai più giovani che la mafia è regole ferree e restrizioni, obbedire ai comandi e sottomissione ad un capo; mentre l’antimafia è bellezza, impegno sociale, amore per la propria terra e, soprattutto, è indipendenza dai poteri forti, è ribellione ai sistemi corrotti e compromessi della politica nazionale e locale.

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