di Francesca Bauleo, studentessa

Il mio primo contatto con la mafia, di cui ho memoria ma non di cui all’epoca ebbi la piena coscienza, avvenne alla festa dell’oratorio del mio quartiere Beata Giuliana, a Busto Arsizio, in provincia di Varese. Avrò avuto all’incirca dieci anni, e quella sera da una limousine scendeva quella che scoprì dopo essere la figlia di un boss siciliano. Al tempo non compresi il perché di quel gesto, perché una ragazzina poco più grande di me era stata accompagnata a bordo di quel mezzo così costoso ad una ricorrenza così semplice come una festa rionale. Solo adesso mi rendo conto che quella non fu un’azione eclatante frutto di una semplice ostentazione di ricchezza ma era qualcosa di più importante, un messaggio per mostrare il proprio potere su quel territorio, dove io stessa abitavo ma in cui non avrei mai pensato che una presenza mafiosa fosse possibile.


Tra il 2010 e il 2011 le operazioni ‘Fire Off’ e ‘Tetragona’ portarono agli arresti dei capi della cosca siciliana nella zona Bustese. Solo dopo questo episodio iniziai a temere che intorno a me qualcosa risultava sospetto. Il problema che mi si poneva in quel momento era che pur vedendo la situazione, pur assorbendo informazioni su quella realtà falsata non riuscivo a percepire la gravità del fatto, la mia conoscenza circa il fenomeno non era abbastanza sviluppata da considerare come pericoloso quell’ambiente. Nessuno che conoscevo era stato mai vittima di qualche tipo di violenza o mai io ero stata testimone di simili episodi. Nella mia stessa famiglia non si affrontava quel tema così scomodo, quindi tutti questi avvenimenti erano qualcosa che consideravo ancora estraneo al piccolo mondo in cui vivevo.


Con il passare del tempo, andando a frequentare le scuole superiori in un’altra parte della città e sentendo cosa avevano da dire gli altri miei coetanei riguardo la zona in cui abitavo, scoprii che le cose non funzionavano come pensavo e che quelle situazioni che ritenevo parte della normalità non accadevano ovunque. In effetti, lì non succedeva che vi fossero delle zone del quartiere, in particolare vie in cui vi sono costruiti dei complessi abitativi popolari nei quali si sa di non poter andare liberamente, dove non è possibile entrare senza che vi sia un valido motivo poiché appena si compiono i primi passi all’interno dei giardini degli stabili si sentono degli sguardi addosso provenire dai balconi e finestre soprastanti; laddove in origine, per giustificare questo divieto era sufficiente ottenere come spiegazione che “lì non si può andare perché ci sono i delinquenti”. Ora iniziavo a comprendere che il motivo profondo di quell’impedimento risiedeva, in realtà, in un’affermazione più simile a: “Lì non si può andare perché non è una zona libera, ma è un ambiente sotto al controllo di una realtà alternativa che non risponde alla legge e che non riconosce nello Stato la suprema autorità detentrice del monopolio della forza”.


Il motivo che mi ha portato a scegliere di frequentare il corso di Sociologia della criminalità organizzata risiede nella volontà di dare un nome alle cose che mi sono resa conto essere state intorno a me per tutta la vita, è una presa di coscienza, inoltre l’obiettivo che mi sono fissata era di imparare a conoscere in cosa consistesse questo fenomeno.


La visione che possedevo della figura del mafioso era molto stereotipata, credevo che gli uomini di onore si fossero in un certo senso imborghesiti e che assomigliassero molto di più alla loro trasposizione cinematografica, dove sono soliti essere rappresentati in abitazioni lussuose da cui dirigono il centro del loro potere e che vivessero nei bunker solo nel momento in cui diventava necessario rifugiarsi dalla polizia. Ritenevo che al Nord andassero quasi esclusivamente per motivi di affari e che non si sarebbero mai separati dal proprio territorio d’origine. Ero convinta del fatto che essi fossero degli imprenditori della malavita abili a gestire i propri affari, che avessero un livello di internazionalizzazione molto sviluppato che si era evoluto pari passo all’economia di mercato. Di conseguenza ritenevo che il loro stile di vita consistesse nell’ostentare la loro ricchezza, usufruendo in larga maniera dei guadagni provenienti dai loro traffici illeciti. Lezione dopo lezione, ho compreso che la ricchezza non viene esibita solitamente nella vita di tutti i giorni ma solo tramite dei riti di passaggio come il matrimonio e il battesimo nei quali il mafioso dimostra a che dinastia appartiene dandogli un senso.

Quello che ha suscitato in me maggiore attenzione è il rapporto che l’organizzazione instaura e mantiene con l’ambiente sociale sia nel paese d’origine che in quello in cui si espande e i modi in cui si può porre fine a questo sviluppo. Per questo, quando è stato trattata l’organizzazione mafiosa della ‘ndrangheta sono rimasta stupita di quanto la cultura mafiosa abbia dei forti punti di contatto e di sovrapposizione con la cultura calabrese della quale fa parte anche la mia stessa famiglia, in quanto mio padre è figlio di immigrati di Rossano Calabro venuti al Nord negli anni ’60 a cercare nuove opportunità di lavoro, dopo che altri parenti avevano già compiuto tale scelta. I punti di contatto che ho individuato sono: l’omertà, i rapporti con la famiglia, il vincolo di compaesanità e il rapporto con il paese d’origine.


Sin da piccola sono cresciuta in un ambiente in cui tutti sapevano delle vicende più profonde e inconfessabili di un’altra famiglia ma c’era il vincolo di non dover andare in giro a raccontare gli affari che non erano i propri, se lo si faceva era solo dietro un’insistenza incessante da parte dell’interlocutore il quale era solito essere a conoscenza di fatti parziali e poi si parlava confrontandosi sotto voce, spesso in dialetto, per non farsi comprendere da altri intorno.


Grazie agli insegnamenti, ho realizzato di essere stata io stessa vittima, o meglio complice e parte integrante di quel processo di rimozione compiuto in tutto il Nord Italia, sono arrivata ad affermare di aver negato l’esistenza del problema, ignorando tutti quei campanelli di allarme che mi circondavano. Riconosco di aver avuto la presunzione di ritenere che la mafia fosse un fenomeno esterno al mio mondo, qualcosa di cui si sente parlare ma che non appartiene alla realtà in cui sono cresciuta, qualcosa che è caratteristico del Sud Italia o che riguarda una parte delle periferie delle grandi città non i paesi di provincia del così detto ‘motore trainante’ della nazione, dell’Italia per bene, della città di Milano. La mancata protesta e ribellione all’espansione della impresa mafiosa aveva lasciato in me un certo senso di delusione, la rassegnazione a quel tipo di società dopo aver compreso la gravità e la pericolosità della situazione non mi sembrava una soluzione accettabile. Mi chiedevo quali soluzioni si potessero adottare per questo la parte del corso che mi ha più affascinata è quella riguardante l’importanza del movimento antimafia.


Se è pur vero che, citando il magistrato Giovanni Falcone, “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”, mi è piaciuta l’idea di porsi la domanda di come questa possa essere perseguita, di non rassegnarsi passivamente.


La presa di coscienza è l’unico punto di partenza. Ogni cittadino di conseguenza potrà intervenire nei singoli aspetti e solo così effetti ad ondata finiranno per dare la possibilità di iniziare un cambiamento. Mi piace pensare che la tesi per cui queste irresistibili ascese non siano affatto tali si possa mettere in atto se ognuno di noi ha la forza di opporsi.

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