di Claudio Campesi

Dopo aver raccontato la storia della vittima innocente di mafia Maria Chindamo, è bene capire il contesto di cui ha vissuto e a che punto sono le indagini:

ASCONE E IL CONTESTO. Salvatore Ascone è conosciuto a Limbadi, soprattutto in certi ambienti. Emerge in particolare dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che di lui parlano, oltre che da un curriculum criminale che avvicina Ascone alle attenzioni delle forze dell’ordine fin dal lontano ‘82. Ne parla anche Emanuele Mancuso, ex rampollo di ‘ndrangheta, figlio del famigerato boss Pantaleone, detto “l’ingengere”, nonché primo collaboratore di spicco proveniente dalla cosca egemone a Limbadi. L’immagine che ne viene fuori è quella di un ruolo sui generis, quasi autonomo nel suo operare come narcotrafficante. Pare riuscisse infatti a lavorare in stretta connessione con più ‘ndrine. Capace di gestire ingenti quantitativi di droga ma ben ancorato al lavoro di pastore, da cui il soprannome aggiuntivo di “u craparu”, tratteggia proprio il profilo di una criminalità con la testa rivolta al futuro ed i piedi ben piantati nel passato. Numerose in tal senso le denunce sporte nei suoi confronti, negli anni, per pascolo abusivo, minacce, danneggiamento e invasione di terreno privato. Reati “minori” se comparati agli altri processi in corso che lo vedono imputato per traffico di stupefacenti, ma che hanno una loro importanza se ci si sofferma ad analizzare il contesto sociale all’interno del quale avvengono. La comunità di Limbadi, ma non solo, ha un legame viscerale con la terra ed il lavoro agricolo. La terra è, allo stesso tempo, mezzo di sostentamento e cartina al tornasole utile a mostrare il potere di chi la possiede. Il pascolo abusivo, l’invasione di terreni, le guardianie, sono un modo, storicamente utilizzato dai clan, per certificare la propria autorità e controllare il territorio. I Mancuso stessi sono nati come “crapari”, pastori, avvezzi a tali pratiche, ed oggi costituiscono una delle famiglie più ricche e potenti dell’intera ‘ndrangheta. Tornando all’attualità, l’accusa per Ascone è quella di concorso in omicidio e, nello specifico, si sospetta che l’uomo possa aver manomesso il proprio sistema di video-sorveglianza, usualmente attivo h24, per evitare che le telecamere riprendessero l’aggressione e il sequestro della donna. Le lunghe e certosine indagini, arrivate addirittura in Cina (per un riscontro tecnico in merito al funzionamento di alcune videocamere ndr), portate avanti dalla magistratura hanno consentito di accertare con assoluta certezza che il Dvr (tipologia di sistema di videosorveglianza ndr) presente nella proprietà di “u pinnularu”, che sarebbe stato utile per identificare i volti degli aggressori di Maria, è stato manomesso. Certezza corroborata anche dall’oggettiva assenza, quel giorno, di disfunzioni elettriche o interruzioni di corrente in zona. Pare che anche altre telecamere di sicurezza del circondario, tracciate dagli inquirenti nel tentativo di ripercorrere l’ultimo tragitto percorso da Maria il giorno della scomparsa, siano state rese inutilizzabili. Dispositivi anche in uso a privati che, per logica essenziale, sarebbero dovuti essere direzionati a inquadrare punti considerati importanti dai rispettivi proprietari (come porte d’ingresso, cancelli ecc … per chiare esigenze di sicurezza domestica), invece erano volte, a partire da 2 giorni prima della sparizione di

Maria, in modi del tutto insensati: alcune inquadravano per terra, ad esempio, altre erano scollegate dall’alimentazione elettrica. Ma torniamo ad Ascone. Qualche settimana dopo, nell’Agosto del 2019, il Tribunale del Riesame di Catanzaro revoca l’ordinanza di custodia in carcere emessa dal gip di Vibo Valentia: Ascone torna in libertà. Non c’è pace per i familiari. Le motivazioni della scarcerazione dell’unico indagato, tra l’altro, tardano ad arrivare. Ragioni riassumibili in quelli che potremmo definire come vizi di forma, legati a trascrizioni errate. Continuano le indagini.

Poi le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Cossidente, rese pubbliche solo qualche mese fa, aprono nuovi e inquietanti scenari sulla scomparsa della donna. Cossidente ha condiviso il carcere con Emanuele Mancuso, rampollo dell’omonima potente ‘ndrina che ha deciso di collaborare con la giustizia, legato da anni anche a Salvatore Ascone. Mancuso gli avrebbe riferito che Ascone era interessato ad acquisire i terreni della Chindamo la quale però era contraria alla vendita. Questo, secondo le dichiarazioni ora al vaglio degli inquirenti, il vero movente dell’omicidio. Un omicidio che l’Ascone avrebbe pianificato in modo strategico, aspettando che cadesse la ricorrenza dell’anniversario della morte dell’ex marito Ferdinando in modo tale da depistare le indagini, indirizzandole appunto sulla pista della vendetta familiare. «… la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali» si legge infine. Scenari strazianti che, se corroborati da riscontri ulteriori, ci restituirebbero l’immagine di un universo spesso colpevolmente taciuto. Di un contesto di chiara matrice ‘ndranghetista all’interno del quale sarebbe maturato l’omicidio. Di una ‘ndrangheta che però, oggi come in passato, necessita del consenso popolare per potersi legittimare agli occhi delle popolazioni che tiene sotto scacco. A questo scopo, genera falsi miti circa il proprio modo d’agire e le proprie origini. Basti pensare al falso storico del boss “che offre lavoro”, che dirime saggiamente le controversie cittadine e che, come in questo caso, difende l’onorabilità delle donne anche perché “donne e bambini non si toccano”. Falsità.

LE TERRE DI MARIA. Nell’attesa che le indagini seguano il proprio corso nelle adeguate sedi, è però possibile, per noi società civile, dare un piccolo contributo utile a sostenere la causa di Maria e della sua famiglia. Il 21 Settembre del 2020, sulla piattaforma certificata gofundme.com è cominciata la raccolta fondi “Controlliamo Noi la Terra di Maria” (Scopri qui come poter donare). L’iniziativa, portata avanti da Vincenzo Chindamo e Sabrina Garofalo, sociologa, scrittrice e ricercatrice, prende il là a seguito di un episodio di furto che ha visto soggetti non identificati predare attrezzature e mezzi agricoli presenti all’interno dell’azienda che, ancora oggi, porta il nome di Maria. «Questa terra, questa azienda, questa storia dev’essere tutelata in tutti i modi. A chi pensa che sia la terra di nessuno, la famiglia insieme ad amiche e amici risponde con forza e con una scelta consapevole e condivisa: controlliamo noi la terra di Maria, ci saranno occhi vigili e attenti, segni forti di una sana consapevolezza, portare avanti il sogno di Maria» così viene presentata la campagna di raccolta fondi i cui proventi saranno finalizzati proprio a dotare l’azienda di un sistema di videosorveglianza, ma non solo. Sono infatti previste nuove iniziative che coinvolgeranno la cittadinanza ed i più giovani. Un risvolto concreto che, in una terra dove la ‘ndrangheta vorrebbe controllare anche il respiro delle persone, profuma di libertà.

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