di Erica Ravarelli

Si sente spesso dire che il giornalismo dovrebbe essere il cane da guardia della democrazia, espressione con cui si fa riferimento al fatto che un regime non può dirsi propriamente democratico se la libertà di stampa e di informazione non sono adeguatamente garantite. I giornalisti dovrebbero “fare le pulci” al potere, si dice, e cos’è la mafia se non una forma di potere? Il valore di giornalisti come quelli che negli anni ‘50 del secolo scorso lavorarono all’Ora è stato (anche) questo: aver raccontato la Sicilia in tutti i suoi aspetti, a costo di attirare l’attenzione di soggetti “pericolosi”. 

“Pericoloso” fu l’aggettivo con cui L’Ora titolò quando, nel 1958, Luciano Liggio divenne il nuovo padrino di Cosa Nostra, in seguito all’omicidio di Michele Navarra. La foto in prima pagina, accompagnata da una descrizione accurata del nuovo capomafia, rappresentò una delle pagine più famose di una lunga inchiesta che a Cosa Nostra non piacque, e infatti la sua reazione intimidatoria non si fece attendere: erano le 4.52 del 19 ottobre quando una bomba scoppiò nella sede del giornale, danneggiando le rotative. Il segnale era chiaro: l’attività dei giornalisti guidati dallo storico direttore Vittorio Nisticò stava mettendo in discussione degli equilibri ormai consolidati, stava facendo breccia nel muro del silenzio che si ergeva tra la società civile e la consapevolezza del livello di penetrazione che il fenomeno mafioso aveva raggiunto in Sicilia, dove ogni clan aveva la sua area di influenza, stava mettendo a nudo un sistema di complicità e connivenze che aveva permesso a boss mafiosi come Lucky Luciano di agire indisturbati già a partire dal secondo dopoguerra. Il giorno successivo all’attentato il giornale uscì e scelse un titolo inequivocabile: “La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua”.

Fondato nel 1900 dalla famiglia Florio con l’obiettivo di dare voce alle istanze della borghesia imprenditoriale siciliana, durante il regime mussoliniano il giornale combatté per difendere la propria autonomia, tant’è che fu il primo a pubblicare il cosiddetto “memoriale Rossi”, ossia il documento con cui l’ex capo dell’ufficio stampa di Mussolini accusava il duce di essere il mandante del delitto Matteotti. In seguito all’emanazione delle leggi fascistissime, tuttavia, L’ora si vide costretto a diventare “quotidiano fascista del Mediterraneo”, e lo rimase fin quando le sue pubblicazioni furono sospese: era il 27 agosto 1943. 

Nel periodo che va dal secondo dopoguerra al 1992, L’Ora non fu semplicemente un giornale antimafioso, espressione controversa e, nel caso del quotidiano diretto da Nisticò, riduttiva: fu il giornale dei cittadini, fatto da cronisti e reporter abituati a non fidarsi delle versioni ufficiali bensì a cercare le notizie “consumando le suole delle scarpe”, abituati a raccontare sia la Palermo piegata da Cosa Nostra, pubblicando le foto dei morti in prima pagina, sia la Palermo degli intellettuali; trovarono spazio sulle colonne del giornale scrittori come Camilleri e Sciascia, e la visita alla sede dell’Ora divenne una tappa obbligata per tutti i personaggi del mondo della cultura impegnata che passavano per il capoluogo siciliano. 

L’attentato del 1958 non fu il primo né l’ultimo tentativo di mettere a tacere L’Ora: la prima intimidazione risale al 1947, anno in cui il Bandito Salvatore Giuliano, mandante della strage di Portella della Ginestra, minacciò di far “rimettere la pelle” a quei giornalisti che si ostinavano a raccontare “fatti da non pubblicizzare” (L’Ora non aveva mancato di indicare nel Bandito Giuliano il mandante della strage, facendo riferimento anche alle responsabilità politiche). Per tutta risposta, l’allora direttore Ingrassia scrisse “La pelle è un tessuto, caro Giuliano, che ha un valore se sotto ci sono tanti organi, tra i quali il cervello, il cuore, e quindi un’idea e una passione. Se per paura dovessimo rinunziare a un’idea, a che ci servirebbe la pelle?”. Tre in particolare furono i giornalisti che decisero di non rinunciare alle loro idee anche se ciò significò dover rinunciare alla loro pelle: Cosimo Cristina, trovato morto sulle rotaie di una ferrovia il 5 maggio 1960, Mauro De Mauro, sulla cui scomparsa, avvenuta nella notte del 16 settembre 1970, ancora oggi non è stata fatta chiarezza, e Giovanni Spampinato, ucciso il 27 ottobre 1972 mentre stava indagando sul delitto di un ex consigliere comunale del movimento sociale (si verrà poi a sapere che l’autore di quel delitto, il figlio del presidente del tribunale di Ragusa Roberto Campria, fu anche l’assassino di Spampinato).

L’appello pubblicato cinque giorni dopo la scomparsa di De Mauro

Alle minacce e alle intimidazioni, l’Ora rispondeva con la qualità dell’informazione, facendosi portavoce di quella Palermo che non aveva intenzione di arrendersi neanche di fronte alla Strage di Ciaculli (30 giugno 1963, titolo dell’Ora: il terribile 30 giugno di Palermo. La strage), all’eccidio di Viale Lazio (10 dicembre 1969, prima azione stragista dei corleonesi di Riina e Provenzano) o alla stagione dei delitti eccellenti. 

Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente della scorta Domenico Russo, l’Ora titolava: la morte ha fatto 100, riferendosi ai 100 giorni che separano la data dell’assassinio di Pio la Torre, sindacalista e politico ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile 1982, da quella del generale.

L’Ora fu anche il primo giornale a doversi difendere dall’accusa di “vilipendio del governo e delle forze di polizia”, la quale gli fu mossa da un Procuratore della Repubblica in seguito alla pubblicazione di articoli che riguardavano le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine contro i manifestanti durante i tumulti legati alla formazione del governo Tambroni, nel 1960. Un chiaro segnale, questo, del fatto che L’Ora fu davvero in grado di fare le pulci al potere, in qualsiasi forma esso si presentasse. Negli anni Cinquanta e Sessanta non mancarono, inoltre, le critiche al trio Lima (sindaco di Palermo) – Ciancimino (assessore ai lavori pubblici) – Gioia (segretario provinciale della DC), che con le loro concessioni resero possibile il sacco di Palermo: si trattò di dichiarare l’edificabilità di terreni che la mafia aveva acquistato a prezzi stracciati, di fatto distruggendo i villini in stile liberty che costellavano il capoluogo siciliano e facendo costruire al loro posto quei palazzoni che cambiarono il volto città. 

L’ultimo numero dell’Ora uscì l’8 maggio 1992, due settimane prima della strage di Capaci. La decisione di titolare “Arrivederci” anziché “Addio” sottintendeva una speranza rimasta vana: quella di tornare in edicola. Oggi, L’Ora vive nel ricordo chi crede che un giornalismo presente, preciso, pronto a denunciare, che si schiera dalla parte della società civile e che pretende trasparenza sia ancora possibile. I palermitani, inoltre, a partire dal 29 settembre 2019 (centenario dalla nascita di Nisticò) possono camminare lungo Via Giornale L’Ora, la prima strada italiana intitolata a un giornale. 

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