Ieri abbiamo festeggiato la festa della mamma. Ieri come oggi ci ricordiamo quanto la figura materna debba essere protetta e custodita. Regaliamo fiori, dedichiamo frasi e pensieri amorevoli.

Anche in Messico si festeggia il “Dia de la Madre”. Ogni 10 maggio. Quel giorno, da diversi anni, le madri messicane sfilano a Città del Messico per manifestare il loro dolore e la loro rabbia. Unitamente a molte altre madri centroamericane e sudamericane. Sono addolorate e arrabbiate per quei figli che cercano da tempo ma che non trovano. Desaparecidos e desaparecidas. Scomparsi e scomparse. Inghiottiti dalla ferocia dei gruppi criminali e dall’inefficienza delle autorità corrotte. Vittime della narcoguerra che da più di dieci anni sta demolendo il paese latinoamericano.

Anche quest’anno le madri sfilano indossando le t-shirt con l’immagine dei propri cari stampata sul petto. Proprio lì dove mancano di più. Hanno l’animo lacerato quelle madri. Sanno che non c’è nulla da festeggiare. Attraverso un hashtag lo ricordano a tutto il mondo dei cibernauti cinguettanti. #NadaQueCelebrar ci dicono. Niente da celebrare in un paese che conta, dati ufficiali alla mano, 29,917 persone scomparse. Decisamente nulla da celebrare in un paese che in valori assoluti riporta un numero di morti inferiore solo alla Siria devastata dalla guerra (dati dell’International Institute for Strategic Studies 2017). Sono circa 23 mila nel 2016. Più di Iraq e Afghanistan. Certo il governo messicano e diversi analisti ci rammentano come il Messico sia un paese vastissimo e popoloso, dunque tutto sommato gli omicidi rapportati al numero di cittadini non si presenta così elevato. Ci ricordano anche che la totalità degli omicidi non può essere direttamente riconducibile alla narcoguerra. Ma da qualsiasi angolazione uno le voglia osservare è innegabile che sono cifre impietose e preoccupanti

Tuttavia quello che fa più paura non sono i numeri. Ciò che mette i brividi è la vita di tutti i giorni. Sono gli episodi calati nel vissuto quotidiano di migliaia di cittadini messicani. In modo particolare di quei cittadini desiderosi di mettersi di traverso al potere mafioso e alla violenza brutale. Alla corruzione imperante e alla sordità delle istituzioni.
L’ultima vittima in ordine di tempo, come in un macabro scherzo del destino, è stata proprio una madre messicana. Freddata la sera del 10 maggio. La festa della mamma. La sua festa. Miriam Elizabeth Rodríguez Martínez ritrovò sua figlia Karen Alejandra in una fossa clandestina dopo che era scomparsa nel 2012. Era stata lei a fare le ricerche vestendo i panni di un’investigatrice privata. Sempre lei aveva fornito le informazioni decisive per la cattura dei responsabili.

Fino a pochi giorni fa rappresentava il “Colectivo de Desaparecidos” di San Fernando, città situata nello Stato nordorientale del Tamaulipas, oggi feudo del cartello del Golfo e dei Los Zetas. Regione che si presenta come la riproduzione in miniatura di un perfetto narco Stato: dilaniata dagli scontri per il controllo delle rotte della droga verso il Texas; incancrenita dal mal governo di politici e amministratori corrotti (l’ex governatore latitante Tomás Yarrington è stato arrestato pochi mesi fa a Firenze per aver intascato milioni di pesos dai gruppi criminali) e capoclassifica per numero di desaparecidos (si concentra in questo Stato circa il 23% dei casi registrati in Messico).

Immersa nel disastro del Tamaulipas, Miriam era solo una madre. Che insieme ad altre madri cercava i suoi numerosi altri figli. Come amano dire, loro sono le madri di tutti.  Lei è la tredicesima familiare di desaparecidos messa a tacere perché si era messa di mezzo. Miriam stava portando avanti la sua battaglia. Anzi la sua guerra. Perché in fondo le guerre giuste esistono. E sono quelle che si combattono senza armi ma con la forza dell’amore e della giustizia. Sono quelle guerre portate avanti dalle mani operose di migliaia di familiari che scavano mesi in cerca dei resti dei propri figli. Sono i buscadores. I cercatori e le cercatrici. Madri guerriere che non possono permettersi di stare in silenzio. E noi con loro.

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