di Amedeo Paparoni

Se siete italiani e avete varcato i confini nazionali almeno una volta sapete di cosa sto parlando: “Italiani? Bella vita! Mare, pizza, mafia!”. Questo stereotipo che ci perseguita è stato alimentato da un’immagine grottescamente distorta del fenomeno mafioso, tanto da poter pensare che lo si possa vedere come una banale forma di folclore tutta italiana. Nulla di più sbagliato. Nessuna persona dotata di un minimo senso del pudore scherzerebbe su eventi tragici come l’11 settembre o la strage del Bataclan. Eppure sulla mafia si scherza eccome! Non si tratta solo di humour nero ma di qualcosa di molto peggio: si tratta di banalizzare un fenomeno estremamente pericoloso. Ci dobbiamo quindi chiedere cosa abbia di fatto addolcito questa percezione delle organizzazioni di stampo mafioso. Una risposta esaustiva richiederebbe un lungo approfondimento sulla strategia comunicativa delle organizzazioni criminali, sulla loro rappresentazione cinematografica e sullo spazio che viene dedicato loro dai media. C’è però un altro aspetto che non è per forza riconducibile alle organizzazioni criminali, ovvero il brand “Mafia”.  Non si tratta di una singola impresa che ha brevettato un marchio per produrre beni di consumo e servizi, ma di svariate attività che sono ricorse a questi brutti luoghi comuni per fare business.

Significativo in questo senso il recente caso di una pizzeria di Francoforte sul Meno che ha fatto parlare di sé per aver scelto il nome Falcone e Borsellino. Sarebbe stato un bel tributo ai due magistrati se non fosse che l’insegna era circondata da disegni di fori di proiettile. Ai muri del locale era inoltre appesa non solo la fotografia dei due magistrati uccisi da Cosa nostra, a cui sono dedicate pure due pizze sul menù, ma anche quella del protagonista de Il Padrino, Vito Corleone. Maria Falcone, sorella del primo dei due giudici assassinati, ha richiesto alla magistratura tedesca di impedire al proprietario del locale di utilizzare il nome “Falcone” nell’intestazione della pizzeria. Tuttavia il suo ricorso è stato respinto perché, secondo il tribunale, a quasi trent’anni dalla morte del giudice “il tema della lotta alla mafia non è più così sentito tra i cittadini”. Se di solito l’odore di pizza fa venire l’acquolina in bocca, in questo caso è difficile conservare l’appetito. Per fortuna alla fine il buonsenso ha avuto la meglio e il ristoratore ha rinunciato al nome specificando in una lettera inviata all’ambasciata italiana a Berlino che “in nessun momento è stata nostra intenzione banalizzare la mafia, offendere i due magistrati […] e le vittime innocenti della mafia”.

Casi analoghi si sono verificati anche in Spagna, Austria, Argentina e ancora in Germania. Se avete buona memoria forse vi ricorderete del ristorante spagnolo La Mafia se sienta a la mesa, ovvero La Mafia si siede a tavola, fondato nel 2001 e trasformato in franchising con l’apertura della società La Mafia Franchises S.L.. Due denominazioni che non lasciano troppo spazio all’immaginazione. All’interno dei ristoranti è possibile mangiare piatti tipici della cucina mediterranea circondati da fotografie tratte da Il Padrino e pannelli che riportano i nomi scritti a caratteri cubitali dei più importanti boss italoamericani mischiati a quelli dei personaggi cinematografici. A seguito di una battaglia dell’allora presidente della commissione antimafia Rosy Bindi il brand ha ricevuto un duro colpo con l’annullamento del marchio da parte della Divisione Cancellazioni dell’Ufficio Marchi e Disegni dell’Unione europea. La commissione dell’EUIPO ha poi confermato che il marchio contestato era contrario all’ordine pubblico, respingendo il ricorso del marzo del 2018. Il marchio rimane quindi “invalido per tutti i beni e servizi in contestazione”. Una vittoria della pubblica decenza? Non proprio. Basta andare sul sito della catena per rendersi conto che i ristoranti non hanno cambiato nome e che stanno festeggiando i vent’anni di attività.

Nel 2013 ha fatto parlare di sé il Pub Don Panino di Vienna che offriva sandwich dedicati a padrini ed eroi antimafia. Un esempio di cattivo gusto che raggiungeva il suo apice con il panino dedicato a Peppino Impastato, giornalista antimafioso assassinato su ordine del boss Tano Badalamenti nel 1978. Sul menù la descrizione del panino era raccapricciante: “Siciliano dalla bocca larga, fu cotto in una bomba come un pollo nel barbecue”. Stesso scenario a Buenos Aires dove il ristorante Arte de Mafia prevede tutt’oggi un menù a base di cliché come il “Petto di pollo dei picciotti”, i “Gamberetti della Famiglia Genovese” e la “Picada de Vito Corleone”. Anche qui appese alle pareti non mancano fotografie tratte da Il Padrino, la locandina di Quei Bravi ragazzi e i dieci comandamenti della mafia, ovvero una lista di luoghi comuni su rispetto, onore e famiglia tradotti in un italiano maccheronico. Il locale è tutt’ora in attività, valutato 4 su 5 su TripAdvisor.

Nel quartiere St. Pauli di Amburgo la Trattoria Palermo serve delle autentiche pizze italiane. Anche se il locale non accetta prenotazioni, è possibile telefonare per richiedere informazioni. Gli interlocutori sono in grado di rispondere in tedesco, italiano e dialetto siciliano. Tutto bello? Beh, quasi. Nel menù della trattoria alla modica cifra di dieci euro è possibile ordinare la “Pizza Mafia”.

Qualcosa di simile succede anche a Milano dove la pasticceria e rosticceria siciliana Cose Nostre ha scelto un nome quantomeno evocativo. Il Mafia Brand è comprato e venduto dunque anche in Italia. In Sicilia ad esempio non è raro scorgere nei negozi per turisti magliette, grembiuli e calamite raffiguranti Vito Corleone o uno stereotipato mafioso con coppola e lupara.

Il Mafia Brand ha attecchito anche nell’abbigliamento. Nel 2013 il marchio Pakkiano aveva inserito nel suo catalogo una t-shirt con il volto del boss della mala del Brenta, Felice Maniero, accostata alla scritta “Fasso Rapine”. I capi di abbigliamento sono stati ritirati dal mercato dallo stesso produttore, raggiunto dalle critiche dei cittadini veneti e da un’azione legale promossa dall’allora sindaco di Campolongo Maggiore (VE) Alessandro Campalto. Se in passato l’Italia ha tristemente esportato crimine organizzato, oggi ci ritroviamo nella situazione paradossale in cui un’azienda della provincia di Parma importa dal Brasile e distribuisce nello Stivale il Mafia Brand. Infatti lo scorso dicembre è scoppiato il caso del marchio di abbigliamento dall’inequivocabile nome La Bella Mafia. C’è da chiedersi in che modo possa definirsi “bella” un’organizzazione criminale che ha compiuto atti di terrorismo, ucciso migliaia di persone e avvelenato l’economia di intere nazioni.

I simboli del crimine organizzato come brand hanno valicato i confini continentali. Sul web non è difficile imbattersi in siti che vendono magliette e felpe raffiguranti la faccia del sanguinario narcotrafficante colombiano Pablo Escobar, la cui figura è tornata alla ribalta a seguito del successo della serie tv Narcos. Sarebbe più corretto parlare di Narco Brand, ma curiosamente il figlio di Escobar nella sua autobiografia parla del padre come di un mafioso. Tra i capi di abbigliamento che hanno utilizzato il volto di Escobar ci sono anche le maglie del marchio De Puta Madre fondato dall’ex narcotrafficante colombiano di Cali, Ilan Fernàndez. Poco importa se Escobar ha causato la morte di centinaia di persone, il senso degli affari non impedisce di mettere in commercio una maglietta con la scritta a caratteri cubitali “Colombia, Narcotraffico”. Ironia della sorte anche Fernàndez è stato vittima di un crimine: le sue magliette sono state contraffatte e lui stesso se ne è lamentato.

Evidentemente anche il Narco Brand vende, tant’è che Emma Coronel Aispuro, moglie del narcotrafficante Joaquín Guzmán, alias El Chapo, da anni sta lavorando per avviare un’attività al fine di lanciare indumenti con il marchio commerciale Chapo. Nel 2016 ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’Istituto messicano per la proprietà industriale a utilizzare il soprannome del signore della droga per etichettare prodotti commerciali e nell’aprile del 2019 El Chapo ha firmato dalla sua cella di Manhattan un contratto che le conferisce i diritti sul suo nome tramite la società JGL LLC. In questa occasione il signore della droga non è stato né il più veloce né il più innovativo: nei mercatini messicani le magliette e i cappellini con la sua faccia sono in commercio già da qualche anno.

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