di Beatrice Botticini

Un paio di grandi occhiali da sole gli oscurano il volto, gli avambracci sono coperti da un’ampia coperta a righe, sotto la quale si nascondono i polsi ammanettati: sostenuto da due agenti, Tommaso Buscetta scende la scaletta dell’aereo che da Rio de Janeiro l’ha riportato in Italia. È il 15 luglio 1984: a seguito dell’estradizione accordata all’Italia da parte del Supremo Tribunale Federale brasiliano, l’arrivo del “boss dei due mondi” a Fiumicino viene fissato su pellicola da una folla di giornalisti in attesa.

Questa scena, impressa nella memoria di molti, è uno dei pochi video originali nel film “Il traditore” di Marco Bellocchio, presentato al Festival di Cannes nel 2019. Il regista sceglie di raccontare la figura di Buscetta partendo dal 1980 durante la festa di Santa Rosalia, patrona di Palermo, una città che in quegli anni si presenta come la capitale dell’eroina, il cui traffico regolato da un accordo è gestito dalla mafia palermitana, di cui è membro Buscetta, e da quella corleonese.

  • A questa bella pace che non deve finire mai!
  • Pace?
  • Teatro…

Questo primo dialogo tra Stefano Bontade e Buscetta pone da subito lo spettatore in una dimensione drammatica, in cui sono presenti fin dalle prime scene tutti i personaggi chiave di quella che sarà la seconda guerra di mafia tra le due fazioni mafiose, con nomi noti alle cronache: Contorno, Badalamenti, Inzerillo, Calò e Riina. Buscetta decide di allontanarsi dal conflitto tornando in Brasile, dove risiede con la terza moglie, e dove verrà arrestato per traffico di droga: da qui la richiesta di estradizione in Italia, dove deciderà di collaborare, confermando le indagini di Falcone sull’esistenza dell’organizzazione criminale Cosa Nostra (all’epoca considerata ancora da troppi un’invenzione giornalistica), e raccontando della struttura piramidale che la caratterizza, con al vertice la Commissione. Quelli che prima erano sospetti, vengono quindi trascritti in verbali utilizzabili in tribunale. Una svolta fondamentale, che porterà il 10 febbraio 1986 all’avvio del Maxiprocesso.

Il rischio principale di un film sulla mafia è di cadere nella rappresentazione della violenza stereotipata, offrendo un resoconto parziale degli avvenimenti. E tuttavia, cosa c’è di più forte di un’immagine? Di una frase ad effetto? Elementi che colpiscono il pubblico, e possono aiutare nell’esercizio della memoria storica del nostro Paese. Un compito delicato, che nel caso de “Il traditore” viene svolto alternando scene di estrema crudeltà a momenti di privata quotidianità, metafore animalesche a elenchi di nomi che scorrono in sovrascrizione: un susseguirsi di input che catturano e attivano la coscienza dello spettatore, con chiaro rimando brechtiano. Coinvolgente la scelta del “Va pensiero” verdiano come colonna sonora alla lettura delle sentenze al termine del Maxiprocesso.

Accostarsi alla narrazione della personalità di Buscetta non è un compito semplice, data la sua ambiguità: un mafioso cosmopolita, un assassino e narcotrafficante, ma anche un uomo legato a valori antico-borghesi in difesa dei quali decide di fornire fondamentali testimonianze, non riconoscendosi più nelle “nuove leve della mafia”. Disorienta il suo riaffermarsi “uomo d’onore e non pentito” mentre collabora con i magistrati. Nel film viene sospeso qualunque giudizio, e lo spettatore deve prendere posizione nei confronti del protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino, il quale presta la sua teatralità aderendo alla realtà dei fatti, in segno di rispetto verso le cronache di quegli anni.

Un racconto distante dalla tradizione cinematografica statunitense in cui sovente si dipingono maschere di gangsters circondati dal lusso: i mafiosi di Bellocchio sono invece uomini avidi di potere più che di ricchezza, rappresentati nella loro miseria umana. In occasione della presentazione del film al New York Film Festival, agli spettatori americani viene suggerito di non lasciarsi distrarre: l’eroe della storia è uno solo, ed è il magistrato Giovanni Falcone.

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