di Amedeo Paparoni

Il mese scorso vi abbiamo raccontato di una serie ristoranti e marchi di abbigliamento che hanno fatto degli stereotipi associati alla mafia il tratto distintivo del loro brand. Questo filone commerciale che ammicca al crimine organizzato non ha risparmiato i gadget che è possibile trovare in vendita nei negozi per turisti in Sicilia. Si va dalla maglietta con l’effige di Vito Corleone alla cartolina che sintetizza una fantomatica “filosofia sicula” con il disegno di tre uomini con coppola e lupara che si tappano occhi, orecchi e bocca. Dulcis in fundo c’è la calamita che raffigura la famiglia mafiosa, un quadretto familiare con madre, padre e figli rigorosamente accompagnati da coppola, lupara e candelotti di dinamite.

I siciliani però non sono rimasti a guardare, almeno non tutti. All’inizio di marzo il consigliere comunale di Ragusa Mario D’Asta (PD) ha avanzato una proposta per vietare il commercio di gadget che inneggiano alla mafia. Il motivo è semplice: sono un’offesa a tutte le vittime della mafia. Si parte da Ragusa, il capoluogo di provincia più a sud d’Italia, ma si spera di estendere questo provvedimento a tutte le latitudini europee. Spiega infatti D’Asta: “Nei negozi per turisti di Ragusa Ibla è fin troppo facile trovare gadget che all’apparenza possono sembrare goliardici ma che in realtà inneggiano al potere mafioso perpetuandone gli stereotipi. È una grave mancanza di rispetto nei confronti delle vittime di tutte le organizzazioni criminali di stampo mafioso”.

Poi il consigliere aggiunge: “Non è questa l’immagine della Sicilia che vogliamo dare a chi viene a farci visita. Non ce la meritiamo neppure. Per questo ho proposto un ordine del giorno che possa affrontare la questione in Consiglio Comunale. Per ora siamo ancora in fase esplorativa per capire quale sia lo strumento normativo più adeguato, ammesso che ci sia. Trovarlo sarebbe soprattutto un gesto simbolico necessario perché, anche se è evidente che il problema non può essere risolto a Ragusa, questa battaglia culturale da qualche parte deve iniziare. Chiederemo al Sindaco di Ragusa Giuseppe Cassì di riferire al Presidente della Regione Sicilia, ai deputati dell’Assemblea Regionale, al Presidente Draghi, ai Deputati, ai Senatori e contemporaneamente anche al Parlamento europeo. Gli interventi politici su casi analoghi per ora sono stati chirurgici, ma visto il dilagare di queste brutture serve una norma di alto livello. Nel frattempo i comuni possono intervenire localmente perché dalla base possa innalzarsi una speranza per interrompere questa goffa esaltazione del potere mafioso”.

Sarebbe ora di trovare una soluzione condivisa visto che la sensibilità sul tema scarseggia anche al di fuori della Sicilia. Appena qualche giorno fa in un chiosco di Corso Buenos Aires, in una delle arterie dello shopping milanese, tra una serie di statuette raffiguranti personaggi famosi era esposta anche quella di Don Vito Corleone. La didascalia che accompagnava queste statuetta non lasciava molto spazio all’immaginazione: “Il padrino sono io”. Impossibile dimenticare che a soli 700 metri di distanza, in via Palestro, nel maggio del 1993 Cosa nostra piazzò un’autobomba che uccise cinque persone.

Il problema di fondo è evidente: se da anni i negozi per turisti vendono questi oggetti è logico pensare che qualcuno li compri senza rendersi conto che dietro questi gadget si cela la celebrazione della ferocia di chi ha ucciso e prevaricato per denaro e potere.

Il percorso della proposta di D’Asta non sarà semplice, ma sollevare il tema in una sede istituzionale è un primo passo da non sottovalutare. Non è un caso che a pochi giorni dalla sua proposta un’iniziativa analoga sia stata promossa anche nei comuni di Palermo, Catania, Resuttano, Alcamo e San Fratello.

La narrazione del fenomeno mafioso e delle sue conseguenze deve cambiare se vogliamo che sia chiaro alla nostra comunità che il vero volto delle organizzazioni criminali si manifesta come violenza e prevaricazione e non con una sequela di luoghi comuni dal sapore vagamente romantico. Questa battaglia culturale non può più aspettare.

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