“Signor avvocato, e che crede, guardi me: la guerra del movimento terra è la guerra dei poveri”.

Ha risposto con fermezza venerdì 2 marzo il teste Leonardo Rusconi al controesame dell’avvocato di Ivano Perego, l’imprenditore quarantenne di Lecco accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Aula bunker del carcere San Vittore di Milano. Si svolge qui ‘Infinito’, il primo maxi processo di ‘ndrangheta in terra lombarda. Ogni martedì, giovedì e venerdì il tribunale di via Filangeri si riempie di imputati che devono rispondere del reato punito dall’art. 416–bis c.p. E venerdì mattina ad essere interrogato dal Pubblico Ministero Alessandra Dolci è stato Leonardo Rusconi, ex titolare dell’omonima azienda di autotrasporti, gestita oggi dai figli e sull’orlo del collasso. L’uomo, sessantenne di Lecco, non si è lasciato intimorire dalle domande rivolte con precisione dal PM. E, dalla sua postazione di teste al centro dell’aula esattamente di fronte ai giudici, ha avuto il fegato di indicare Ivano Perego e di metterlo all’indice. Non solo verbalmente, il che non è per niente scontato, ma anche fisicamente, indicandolo con tutta la gestualità permessa in un’aula di tribunale ad un uomo lavoratore che, anno dopo anno, ha visto fallire l’azienda di famiglia aperta quarant’anni prima dal padre.

Alla domanda “Chi è Ivano Perego?”, Rusconi risponde con estremo vigore: “Ivano Perego è colui che ha distrutto il movimento terra: rubava materiale ed è a causa sua che nel giro di due mesi mi sono stati bruciati e fatti sparire camion e macchine, ed è da due anni che non faccio altro che pagare debiti. Perego pensava avessi fatto la spia. Per cinque anni stavo col telefono in mano notte e giorno per, come si dice, menargli il torrone”. Nato nel ’72 a Cantù in provincia di Como e residente a Cassago Brianza nel lecchese, Ivano Perego, in qualità di presidente di ‘Perego Strade’ e amministratore delle società del ‘Gruppo Perego’, si è costruito un vero e proprio impero basato su meccanismi imprenditoriali dalla spiccata matrice mafiosa. Tanto da mirare ai cantieri di Expo 2015. Ivano Perego è accusato dalla Procura Distrettuale Antimafia diretta da Ilda Boccassini di aver acconsentito e favorito l’ingresso in società di Salvatore Strangio: con l’appoggio di quest’ultimo, boss della Locride impiantatosi in Lombardia, Perego avrebbe arricchito le proprie tasche, intrattenendo rapporti privilegiati con esponenti politici e dipendenti delle pubbliche amministrazioni, e creato un sistema di smaltimento illecito di rifiuti, tossici e non. “Nel movimento terra, o andavi dai terroni, o da Perego, oppure dal Varca Pasquale. Questo aveva molti camion che venivano da Milano. Lui non mi ha mai dato fastidio: gli ho detto già dal principio di non venire a comandare a casa mia. Il Varca lavorava un po’ per il Perego. Con me il rapporto si è interrotto quattro anni fa quando il Varca ha cambiato quel ‘famoso assegno’ e io gliene ho dette di parolacce di tutti i colori. Ma non sono mai stato minacciato, non mi lascio intimorire. Una volta però mi è stato detto che mi avrebbero portato a Capo Rizzuto con il paltò di legno”. Tradotto: dentro una cassa da morto. Rusconi ha dichiarato che nel 2009 era in contatto con Francesco Varca, il figlio del capo della locale di Erba Pasquale Varca, che si rivolse a lui per proporgli un lavoro in Valtellina “pur di non andare nelle mani di Perego che poteva permettersi di fare scavi a solo 7, massimo 8 euro, e questo perchè aveva una discarica personale a Cantù, e non so chi gliel’ha fatta prendere”.

Rusconi, oggi in pensione, ha dovuto lasciare le redini dell’azienda di famiglia, sull’orlo di una crisi fallimentare, e mettersi nelle mani dei due figli che, dopo averla rilevata, l’hanno assunto part time a 600 euro al mese. Ma la sua non è di certo una sconfitta: da uomo libero oggi può denunciare legami e amicizie fra i potenti della ‘ndrangheta lombarda e imputati dai passati insospettabili. Cosa che invece non può fare Ivano Perego che, per tutto il tempo della testimonianza di Rusconi, non ha fatto nient’altro che sogghignare e sghignazzare. Da dietro le sbarre.

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