di Marco Pessina

Non si sarebbe dovuto stupire nessuno se una decina di giorni fa anche il New York Times, il Guardian e tutte le maggiori testate internazionali avessero dedicato qualche colonna per ricordare che è trascorso un quarto di secolo dall’attentato a Giovanni Falcone. In quel 23 maggio 1992 oltre al giudice palermitano morirono a Capaci sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Tutti stretti attorno alle meritate – ma spesso corrive – lodi composte per l’occasione nei confronti di un uomo che, in vita, buscò anche a mezzo stampa critiche ingiustificabili, comprese quelle del giornalone milanese. A Osnago il 19 maggio l’associazione Bang con un nuovo appuntamento del Progetto Legalità non ha però chiamato i relatori a porre l’attenzione sul maxiprocesso e sulla data storica sopracitata. Il confronto è stato invece impostato sulla Camorra, in un territorio dove la ‘ndrangheta è l’associazione criminale che agisce in regime di monopolio. Sarebbe stato costruttivo tracciare un bilancio su quanto sia cambiata Cosa nostra e come si sia evoluto il suo contrasto negli ultimi venticinque anni, anche grazie all’eredità di Giovanni Falcone. Allo stesso tempo non ci si può permettere di parlare solo di alcune mafie e nei dì comandati. Un messaggio purtroppo non pienamente colto dai cittadini, che hanno lasciato libere diverse seggiole del Cine-Teatro Don Giuseppe Sironi di via Gorizia. Eppure, come in tutte le serate del Progetto Legalità dal 2012 ad oggi, gli ospiti sono stati di alto profilo. Il giornalista Sandro Ruotolo, ricompensato al Premio Ilaria Alpi per la sua inchiesta televisiva “Inferno atomico” del 2013, andata in onda su La7 per il programma Servizio Pubblico. E poi i magistrati Giuseppe Borrelli e Giovanni Melillo, che all’interno della Direzione Distrettuale Antimafia sono stati o sono in prima linea contro la Camorra. Dai loro interventi sono emersi quei varchi del sistema legale che consentono all’organizzazione criminale di espandersi.

Il primo evidenziato da tutti è di tipo culturale. L’analfabetismo di ritorno e l’abbandono scolastico non consentono di saper interpretare i fatti e i prodotti mass mediatici. «La fiction televisiva è il punto di vista di un autore. È un’opera di ingegno – ha esemplificato Sandro Ruotolo – ma se non si hanno gli strumenti per interpretarla come tale, si ha l’effetto emulazione». Ci sono poi le scelte dei singoli professionisti che optano per la complicità con il potere mafioso. «È colpa vostra – ha ammonito il giornalista che si è occupato della Terra dei Fuochi – se i bambini sono morti troppo in fretta, perché sono arrivati i vostri rifiuti. Gli imprenditori hanno preferito non portarli negli impianti specializzati. Sono loro a non essersi mai pentiti». Fondamentali sono state invece le rivelazioni del collaboratore di giustizia Carmine Schiavone, che dai primi anni Novanta indicava dove fossero state seppellite le scorie tossiche e nucleari. Ma la connivenza dei professionisti con la criminalità organizzata è ancora un elemento che stenta ad essere percepito. «La contiguità di una parte della borghesia va imponendosi in modi nuovi – ha sottolineato Giuseppe Borrelli – e non sempre la società è pronta ad accettarla. La gente tende a difenderli. Serve un cambiamento di atteggiamento da parte dell’opinione pubblica». Non si riconosce cioè quanto i fenomeni corruttivi rendano permeabili le imprese legali, attirando così gli interessi mafiosi per il reinvestimento del denaro sporco. La sanità è uno dei settori maggiormente insidiati dalle mafie. I bilanci regionali della Campania indicano il 75 per cento della spesa pubblica su questa voce, in Lombardia circa l’80. Le opportunità di profitto sono infinite per le organizzazioni criminali. Queste ultime godono di rapporti di favore eccellenti che spesso superano la fantasia. Vi ricordate quando il boss Giuseppe Setola uscì dal carcere di Cuneo grazie ad una perizia di cecità? E fuggì dalla clinica Maugeri di Pavia dove era in cura per guidare poi la strage di Castel Volturno dimostrando abile mira?

Un altro punto di debolezza è l’inclusione sociale. L’analisi di Giovanni Melillo è stata significativa: «Quando c’è un morto ammazzato dovrebbero entrare nelle case dei familiari i servizi sociali per sincerarsi delle loro condizioni. Per le guerre di mafia decine di migliaia di persone hanno perso almeno un parente. Significa che il tessuto sociale è stato unificato dal sangue e dall’odio». Seppur con effetti diversi, anche la repressione giudiziaria è distruttiva. «Dovrebbe poi cominciare un’opera di ricostruzione» ha riconosciuto sempre Melillo.

Proseguendo il discorso dal punto di vista dei varchi, ce ne sono anche alcuni di carattere normativo e logistico. Con le mafie interessate ai mercati internazionali serve una maggiore cooperazione almeno a livello europeo. Il procuratore Borrelli ha spiegato che esistono strutture europee, ma non un sistema di regole comune, ormai imprescindibile. L’ultimo problema toccato è legato all’informazione. Dall’editore impuro che dimostra dei conflitti di interesse all’isolamento dei cronisti di periferia che non possiedono alcuna garanzia. In passato uccisi – Ruotolo ha ricordato in particolare il giovane “abusivo” Giancarlo Siani – e oggi vittime di intimidazioni e di attacchi trasversali. «Ora la stampa è meno libera. La malattia del nostro Paese è che non sono i giornalisti ad attaccare i politici, ma viceversa».

 

 

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