Il Natale del 1943 lo aveva trascorso sulle montagne di Valgrana, in Piemonte. Da partigiano. Sessantotto anni dopo, con 91 primavere sulle spalle, Giorgio Bocca si è spento nella sua casa di Milano, proprio il giorno di Natale. L’esperienza più bella nella lunga vita del giornalista piemontese sono stati sicuramente i venti mesi di Resistenza partigiana. In quel Natale del ’43, Bocca scriveva nel saggio I partigiani della montagna,“Oggi […] c’è qualcosa in tutto di diverso e di nuovo, un senso di gioia ingenua, impalpabile e vibrante come il suono delle campane che giunge da Frise, il paese che ci sta di fronte”. La Resistenza lo aveva conquistato, reso forte e sicuro, oltre che speranzoso e ottimista per il futuro dell’Italia. Gli ideali partigiani lo hanno guidato per tutta la sua esistenza, anche e soprattutto nella professione di giornalista, “Un mestiere che non si può fare se non si è disposti a cercare la verità”. Negli ultimi anni, nella sua rubrica settimanale su L’Espresso, era stato capace di analizzare con costante realismo i mali che affliggono il nostro Paese, con una buona dose di pessimismo per il presente ed il futuro del popolo italiano.Nel 2008, spiegando la complessità del fenomeno mafioso siciliano, aveva scritto “Viviamo la mafia come un popolo di alieni, che ci sorprende per il suo modo di ragionare o di non ragionare. Gli storici, i magistrati, i sociologi che la studiano si chiedono come sia possibile che decine di migliaia di persone abbiano introiettato nei secoli una così invincibile diffidenza verso ogni tipo di Stato, introdotto o imposto dai dominatori stranieri.”

La sua intervista nell’agosto 1982 al generale Carlo Alberto dalla Chiesa contiene spunti e dichiarazioni chiare e ancora attuali sui legami tra Cosa nostra e il mondo politico siciliano e nazionale. Bocca, vivendo e narrando la storia italiana dal dopoguerra in poi, aveva chiaramente definito e raccontato il progressivo incremento di potere delle organizzazioni mafiose, senza trascurare tutti i vantaggi e le collusioni “esterne” che ne avevano favorito l’ascesa. Nel 2009 è stato additato come nemico della patria per aver scritto che tra Stato e criminalità organizzata si sono create zone di tolleranza se non di coesistenza: “Cercai di capire, di raccontare che la mafia non era una brutta favola inventata dai cattivi nordisti, ma un’organizzazione con un giro d’affari ogni anno di 100 mila miliardi di vecchie lire, oggi più che triplicato se si aggiungono i buoni affari della ‘ndrangheta e della camorra. Senza aggiungere che oggi non è più necessario, come facevo io con la mia Topolino Fiat, scendere da Milano a Palermo, Calabria compresa quando non c’era ancora l’autostrada, basta andare in un sobborgo milanese, nord o sud Milano non fa differenza, o nei ristoranti con specialità di pesce per trovare i capi e i picciotti che minacciano, ricattano e uccidono”. Queste frasi possono suonare quasi scontate, a nemmeno due anni di distanza. Ma bisogna ugualmente continuare a cercare di capire e di raccontare, oggi e domani, che la mafia non è mai stata, né mai lo sarà, una brutta favola inventata dai cattivi nordisti.

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