di Nando dalla Chiesa

Ricordare Giovanni Falcone non è solo giusto, è doveroso. Ed è chiaro che il 23 maggio è giusto e doveroso raccogliersi intorno al suo esempio e tributargli simbolicamente la nostra gratitudine per avere donato la vita a uno Stato e a un Paese che lo avevano spesso avversato e umiliato. Ma il clima che è cresciuto intorno a questo trentennale non ha sempre a che fare con il sentimento della riconoscenza. Ha qualcosa di scomposto, di appiccicaticcio. In libreria si potrebbero comporre metri cubi di volumi di varia umanità usciti giusto per l’occasione e aventi lo scopo non di ricordarci la sua lezione, di farlo parlare intendo. Ma di parlare in proprio, di gettarsi sul suo corpo per trarne nutrimento, secondo la bellissima immagine usata da Roberto Calasso nel suo capolavoro, Le nozze di Cadmo e di Armonia, a proposito del sacrificio agli dei del bue di Teofrasto. Che cos’è davvero il “metodo Falcone”? Che cosa ha insegnato all’Italia questo straordinario esemplare di magistrato-intellettuale? Qual è la lezione alla quale dobbiamo continuare a guardare? Quali obblighi abbiamo -morali, professionali, civici- se davvero vogliamo sentirci partecipi della sua eredità? Su questo dovrebbe provare a dare risposte profonde una società che voglia diventare, sia pur faticosamente, “a misura di Falcone”. E invece abbiamo sgomitamenti anche fisici per apparire, rivendicazioni di intimità con “Giovanni”, richieste di patrocinii per convegni, folle di auto blu che si danno rumoroso assembramento per poi sciogliersi verso un paese subito pronto a dimenticare che quella di Falcone è una lezione esigente. Che non consente né opportunismi né fiancheggiamenti né dilettantismi. Se ha un senso parlare di memoria, questa è la prima cosa da non dimenticare.

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